Matteo Renzi è tornato. Ed è
subito guerra. Lo ha fatto a Rimini il 28 gennaio, all’assemblea nazionale del
partito di cui è ancora segretario. A sentirlo, sembra non si sia mai
allontanato dalla politica. Stesse ciarle, stesse faccette, stessa presunzione,
stessa arroganza. Si sarebbe dovuto ritirare a far altro se avesse perso il
referendum della riforma costituzionale. Lo aveva detto lui stesso. E’ rimasto,
forse perché non ha trovato altro da fare. Nei primi giorni del dopo dimissioni
da presidente del consiglio si è fatto riprendere in un supermercato col
carrello della spesa. Una versione domestica che, in regime di maschilismo, lo
avrebbe condannato senza appello, quale homo
inutilis; oggi, in regime di pari opportunità al rovescio, è come una
medaglia al valore.
Riparte. Come tutte le ripartenze,
anche la sua deve mostrarsi veloce, grintosa, determinata, per prendere gli
avversari in contropiede. Come nel calcio. Non poteva perciò dimostrarsi
dispiaciuto, contrito; non è nel suo dna, del resto. Perciò si è mostrato
dimentico; come se dalle sue performance
fossero passati anni. Si sta comportando come chi davvero non c’è mai stato.
Renzi non pare il resto di qualcosa che c’è stata, pare il resto di niente.
Ecco, un altro che non potrebbe più
barare. Oggi gli italiani sanno perfettamente chi è. O forse ci illudiamo che
lo sappiano. Allo stesso modo lui si illude di essere nuovo.
Dopo la sentenza della Consulta
sull’Italicum si è detto soddisfatto.
Che fa, il fesso? No. Soddisfatto perché, a suo dire, si avvicinano le
elezioni. Lo hanno detto tutti i renziani che la sentenza della Corte ha “confermato”
che l’Italicum ha un fondo importante
di costituzionalità. Ma che si aspettavano, che la Corte mandasse
loro i Carabinieri per arrestarli tutti? Quella legge, oltre che
incostituzionale, è stupida.
Se Renzi non fosse quel’immemore o
sfrontato che si sta rivelando si sarebbe dovuto nascondere per un bel po’. La
sentenza è stata l’ennesima bocciatura delle sue "meravigliose" riforme. Dopo
quella della pubblica amministrazione (ministra Madia) e della costituzione
(ministra Boschi), ecco quella dell’Italicum,
la legge elettorale, così perfetta che dava per scontata una cosa non ancora
avvenuta, la riforma del Senato. La classica pentola senza il coperchio: cose
del diavolo o semplicemente di fessi allegri.
Le sue mance, come sono state
chiamate, ottanta euro ai redditi bassi, cinquecento euro agli insegnanti per
aggiornarsi ed altri cinquecento a tutti i diciottenni, hanno creato difficoltà
nei conti dello Stato che ora rischia guai seri da parte dell’Europa, così il
ministro dell’economia Padoan ha chiamato la procedura di infrazione minacciata
da Bruxelles.
Insomma, l’uomo nuovo della
politica italiana, giovane e grande comunicatore, brillante e rottamatore, che
dava pacche sulle spalle ai potenti del mondo come a dei compagni di classe, in
buona sostanza, dopo circa tre anni di governo, non ha lasciato niente. Dietro
di sé macerie, anche in campo internazionale. Hanno perso tutti quelli per i
quali lui tifava, tra cui Cameron e la Clinton. Al niente va aggiunta la sfiga, che si
porta dietro, piuttosto contagiosa. Per un enfant
prodige è grave.
Con quali prospettive si
ripropone? Certo, non è mica fesso a dire: io sono quello di prima, non è
cambiato niente. Ma non dice neppure che, consapevole degli errori e dei
fallimenti, si propone di cambiare. Non dice niente che lo riguardi
personalmente. Dice che vuole cambiare il partito, come se la sua esperienza al
governo è finita come è finita per colpa del partito. Nelle prossime settimane
vedremo come lo vorrà questo partito. Intanto si cerca una via d’uscita mentre
ognuno si mette sulla porta per non far né entrare né uscire. La proposta di Pisapia o quella di trovare un nuovo
leader giovane di un nuovo Ulivo sono nate morte. Prodi giustamente ha
commentato con qualche preoccupazione le stranezze o le stravaganze che
circolano nel Pd.
Da Roma - stessa data, altra assemblea - D’Alema ha agitato lo
spettro della scissione. Non ha torto quando dice che per andare a votare
subito, come vorrebbe Renzi, non ci sono le condizioni. Chiede il congresso
prima, che non dovrebbe essere conta di voti ma confronto di idee, di progetti,
di formazione di gruppi dirigenti.
Ad allontanare le elezioni non è
tanto la mancanza di una legge elettorale omogenea tra Camera e Senato, che
pure è fondamentale, quanto la mancanza sia a destra che a sinistra di intese
solide e di progetti politici. Il congresso nel Pd servirebbe, appunto, a
delineare una progettualità politica. Insomma, per votare subito non ci sono i
mezzi (legge elettorale) e non si vedono i fini (che cosa si vuole fare). Renzi,
col suo solito sarcasmo, strappando qualche applauso, ha detto che non intende
rispondere a chi di lontano, da altra assemblea, minaccia. Invece di
avvicinarsi i leader della sinistra o del centrosinistra si allontanano.
Si può essere d’accordo con chi
dice che chi non vuole il voto subito lo fa per calcoli suoi. In politica è
normale che ciò accada. Ma ai cittadini importa poco il tornaconto politico
personale di questo o quel personaggio. Quel che importa loro è che scomodarli
a votare ne deve valere la pena, ci deve essere un motivo importante, che è
avere progetto di governo e governabilità.
Renzi non ha in questo momento né
l’una né l’altra cosa. In verità non ce l’ha nessuno, né a sinistra né a
destra. E figurarsi i 5 Stelle! Ma sia a sinistra che a destra c’è chi
suggerisce di procedere con prudenza, che non è lentezza: è un attrezzarsi per
giungere preparati a fare qualcosa una volta giunti a destinazione.
Chi,
invece, ha fretta di votare – e Renzi ce l’ha – vuole solo una rivincita
personale, che potrebbe essere, però, una riperdita per il Paese.