L’incarico di Renzi a formare il
governo, frutto di una serie di circostanze di derivazione elettorale e
politica, ma voluto dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, fece
pensare di primo acchito ad una sospensione della democrazia. Per quanto tutto
fosse stato fatto in ossequio alla Costituzione – non è scritto in nessuna
parte che il Presidente del Consiglio incaricato deve essere un eletto dal
popolo – si avvertì un deficit di dibattito e di confronto, in considerazione
che la nostra è una repubblica parlamentare e una democrazia rappresentativa. Parlamentare
perché il ruolo del Parlamento è centrale; esso elabora soluzioni politiche al
suo interno e non si limita a ratificare scelte fatte fuori. Rappresentativa di
che? Di quelle forze politiche elette dal popolo in regolari elezioni. Esse poi
pensano e decidono coi loro uomini più rappresentativi, coi loro leader, in
maniera collegiale. Ora, quella di Napolitano fu una scelta singola, di cui
egli si è assunto la responsabilità di fronte al paese e alla storia, nel bene
e nel male. Duo non faciunt collegium
dicevano i latini, figurarsi uno!
L’interventismo di Napolitano
parte dall’estate del 2011, come ormai è acclarato da testimonianze mai
smentite, con le dimissioni “indotte” di Berlusconi, già politicamente
esautorato e moralmente screditato, con l’incarico a Mario Monti, col tentativo
Bersani, con l’incarico a Letta e infine con l’investitura di
Renzi. Dopo le elezioni politiche ci fu l’intermezzo della rielezione di
Napolitano al Quirinale. Apparve subito pertanto che si trattava di
un’operazione di vertice, gestita in più fasi, una volta si sarebbe detto “congiura
di palazzo”, garantita dalla continuità istituzionale e politica di Napolitano.
E di golpe strisciante si parlò all’epoca dei fatti. Se non fu un golpe sotto
il profilo tecnico, lo fu sotto il profilo politico.
Dopo circa due anni di governo
Renzi, appare di tutta evidenza che non solo la democrazia è sospesa, ma anche
la politica in senso più ampio; e quando la politica è sospesa è come un motore
che si spegne e la macchina non va né avanti né indietro. Ecco, l’Italia è un
paese sospeso. Lo è politicamente, economicamente, culturalmente, eticamente.
Il dibattito politico è congelato, lo zero virgola della crescita è
insignificante, la classe dirigente non ha idee precise sulla sua identità
culturale, la caduta di tensione nell’etica del ruolo, specialmente per certe
professioni, è segno di spaesamento diffuso e crescente.
Non sono tanto le esibizioni di
Renzi, parodisticamente mussoliniane e berlusconiane, che confermano questa
percezione. Ora Renzi si mette anche a parlare di potenza dell’Italia, di
prestigio nel mondo, di puntualità nel portare a compimento le opere pubbliche,
come faceva Mussolini quando dal balcone di una nuova città appena inaugurata
prometteva la data dell’inaugurazione della successiva; e attacca la Merkel in
maniera solo meno pacchiana e volgare di Berlusconi.
Lo stato di incertezza e
confusione lo si evince soprattutto dai commentatori politici che non sanno che
pesci pigliare e dalla stampa tutta che li segue in una condizione di sostanziale
autocensura, ormai conclamata. I più onesti non fanno proclami, ma lo dicono; e
se non lo dicono, lo ammettono.
E’ una cosa molto grave la
condizione in cui operano i giornalisti. Molti di essi, fior di firme, sono
stati prepensionati e vivono in uno stato di “disoccupazione mentale”, nel
senso che la loro intelligenza critica non trova gli spazi adeguati per
esprimersi e incidere nella formazione dell’opinione pubblica. Ché quello è il
ruolo di un intellettuale, di un commentatore critico. Vediamo l’affollamento
di firme celebri nel “Fatto Quotidiano”, autentica area di parcheggio di menti rottamate.
Altri, se non vogliono fare la stessa fine, si guardano bene dal criticare il
potere e vivacchiano dicendo e non dicendo. Autocensurandosi, evitano al potere
politico di mostrare la sua vera faccia, che è quella della repressione sia
pure morbida; e salvano il posto di lavoro. I due maggiori quotidiani italiani
la dicono lunga con la sostituzione di Ferruccio de Bortoli al “Corriere della
Sera” e con quella, annunciata, di Ezio Mauro alla “Repubblica”. I due
direttori sostituiti non erano renziani, sia pure per motivi diversi; Fontana e
Calabresi lo sono. Ogni cosa ha il suo posto, ogni posto ha la sua cosa, si
diceva saggiamente una volta nella bottega di un artigiano. De Bortoli e Mauro
erano ormai al posto sbagliato.
L’aspetto più grave è il
messaggio che passa da simili operazioni: si va verso un renzismo più
sistematico e organico, si va verso il partito della nazione, che – facciamoci
caso – ricorda tanto il partito nazionale fascista. Non contano i dettagli e i
modi con cui l’uno si fece strada nel dopoguerra e l’altro si sta facendo
strada nel dopocrisi – ma è davvero dopocrisi? – conta che oggi come allora si
avverte la necessità di un partito che impedisca la dialettica politica e
abbracci in un solo organismo tutta la nazione. Basta con le chiacchiere e chi
non ha fiducia nel governo è un gufo. Non è un caso che il gufismo di Renzi si
sta affermando come metodica, che travalica la battuta polemica e s’impone come
cifra di comunicazione e di lotta politica. I gufi, nella visio di Renzi, sono gli avversari, malvagi perché sperano che le
iniziative del governo falliscano a danno dell’intera nazione pur di dimostrare
di essere loro i più adeguati a governare. Come fatto non è nuovo, un po’ è
fisiologico in una democrazia; ma solo con lui o da lui in poi è diventato
un’arma propagandistico-mediatica.
Nessun grido di allarme, nessun
“al lupo, al lupo!”. Il partito della nazione non potrà mai calcare le orme del
partito nazionale fascista; ma risponde come quello ad una volontà di creare in
Italia un sistema politico a democrazia ridotta, in modo che chi lo rappresenta
al massimo livello possa prendere i provvedimenti che occorrono in tempi brevi
e rispondere all’Unione Europea senza tante incertezze e lacerazioni interne.
La domanda che è lecito porsi è:
ma il renzismo è una fase del processo d’uscita dalla crisi politica, cui ne
seguiranno altre fino al ritrovamento di un nuovo assetto
politico-istituzionale, o è la risposta finale alla crisi? A ragionar politico,
verrebbe di dire che è la risposta finale. A ragionare storico si ha qualche
legittimo dubbio.