sabato 25 ottobre 2025
Meloni bene, a parte Trump
Alla domanda su Meloni e Schlein il giurista Sabino Cassese, intervistato da Roberto Gressi del “Corriere della Sera”, ha dato questa risposta: «Non c’è possibilità di paragone. Meloni studia, è la migliore allieva di Togliatti, come lui è realista. E ha capito, come prima di lei De Gasperi, che il modo migliore di fare la politica interna è fare la politica estera. Sull’altro fronte vedo il vuoto politico, solo slogan che inseguono l’ultima notizia dei giornali. Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia» (CdS, 21.10.2025). Giudizio di un uomo di assoluta insospettabilità e di profonda dottrina.
Basterebbero i due nomi citati da Cassese per tenere la Meloni a livelli altissimi, essendo stati Togliatti e De Gasperi due protagonisti in assoluto dell’Italia repubblicana ai suoi inizi, due leader insuperati. Avvertiamo, tuttavia, la necessità di evidenziare ciò che della Meloni in questo momento appare preoccupante e che più in là potrebbe essere causa di una sua crisi. In questa sede nessun paragone con la Schlein o con altri. Riteniamo, però, che le critiche, quando esse hanno un fondamento, vadano fatte non quando tutto va male, quando è facile farle, ma prima, quando tutto sembra arridere.
Qualche evidenza. In occasione delle manifestazioni in tutta Italia in favore della Palestina, che hanno caratterizzato il mese di ottobre, Meloni ha dimostrato di non essere in sintonia col Paese ed ha assunto atteggiamenti di incomprensione se non di conflittualità con esso. A manifestare, infatti, c’era un arco di rappresentanze che andava dagli antagonisti a cittadini moderati e perfino elettori di destra. Recentemente Landini, segretario generale della Cgil, ha tirato le somme definendola “cortigiana di Trump”. Espressione, questa, di una gravità enorme, tanto più che Landini non ha inteso neppure chiederle scusa, confermando di aver voluto dire proprio quello che aveva detto, cioè la Meloni persona che fa parte della corte di Trump. Bando a qualsiasi altra interpretazione, sbagliata oltre che volgare, l’accusa è precisa: la Meloni è troppo appiattita sulle posizioni di Trump. Così appare, anche se così non è. Lei è ferma su posizioni filooccidentali mentre Trump è piuttosto ondivago e per certi aspetti irricevibile. La politica della Meloni è chiara e coerente nei limiti della realtà che cambia e si evolve: europeista e filoamericana, favorevole al riconoscimento di una Palestina moderata e rispettosa di Israele nell’ambito della formula “due popoli due stati”, in favore di una pace giusta in Ucraina. Questi sono i punti fondamentali della sua politica estera, al di là di ogni intento delle opposizioni di denigrarla o di irriderla. Gli elogi pubblici di Trump, di un uomo noto ormai per le sue stravaganze verbali e comportamentali, le fanno più danno che utile. All’infelice sortita di Landini si è aggiunta più recentemente quella della grillina Alessandra Maiorino, che l’ha definita cheerleader (ragazza pon pon).
Il termine cortigiana, femminile di cortigiano, uomo di corte, rimanda al nostro Rinascimento quando nelle corti italiane tutti pendevano dalle labbra del signore e tutti cercavano di non contraddirlo: «Pazzo chi al suo signor contradir vole, / se ben dicesse c’ha veduto il giorno / pieno di stelle e a mezzanotte il sole» (Ariosto, Satire, I). Ora Trump non perde tempo a punire tutti i suoi avversari e a prodursi in trovate vomitevoli come quella prodotta dall’Intelligenza Artificiale, che lo vede in aereo che bombarda col suo sterco i manifestanti che lo contestano per i suoi atteggiamenti da sovrano. Una scena che nessun sovrano vero si sognerebbe mai di immaginare: prendere a merdate i propri sudditi perché dissentono. Ma lo può fare Trump in democrazia, e questo è davvero un problema per gli americani. Sicché quando vediamo la Meloni essere associata a Trump non crediamo che le venga fatta una cortesia. Per questo i leader dei più importanti paesi europei hanno assunto un atteggiamento di prudenza nei confronti del Presidente americano, preferendo molto spesso il silenzio, che non è condanna ma nemmeno consenso. La Meloni perciò dovrebbe stare attenta a non farsi legare troppo ad un politico di tal fatta e a ritagliarsi una sua autonomia, che è poi l’autonomia dell’Italia, dato che lei è a capo del governo italiano; che è l’autonomia dell’Europa. Trump cambia molto spesso parere, ha comportamenti autoritari, da principe capriccioso o da sovrano dispotico. Nessuno può dire quello che lui effettivamente pensa su un determinato problema. A seguirlo nelle sue scorribande, si rischia di fare la fine che prima o poi farà lui.
sabato 18 ottobre 2025
C'era una volta il voto
C’era una volta il voto. Valeva quanto una pepita d’oro. Quando si contavano nello spoglio delle schede era un processo infinito ogni volta che per una incertezza grafica il voto veniva contestato. C’erano i rappresentanti di lista con occhi aperti e lingua pronta a rivendicarlo al proprio partito o ad annullarlo a seconda della convenienza.
Erano così preziosi i voti? Certo. Era preziosa la politica. Erano preziosi i partiti. Erano preziosi i comizi, a cui partecipavano moltitudini di cittadini. Essi, a quei tempi, erano protagonisti; tali si sentivano. Le percentuali dei votanti erano altissime. Fino al conteggio dell’ultima scheda non si conoscevano gli esiti dei vari candidati. Oggi con le proiezioni si sanno dopo appena cento schede scrutinate. Il resto si potrebbe pure zavorrare.
I recenti risultati elettorali delle Regionali di Marche, Calabria e Toscana hanno fatto registrare un ulteriore calo dei votanti. Più della metà degli elettori non è andata a votare. Nelle Marche e in Calabria ha vinto il candidato di centrodestra con largo margine sull’omologo del centrosinistra; in Toscana è accaduto il contrario: ha vinto il candidato del centrosinistra con largo margine sull’avversario di centrodestra.
Viene di pensare che oggi una buona percentuale di votanti, sia di destra che di sinistra, non si rechi a votare perché lo ritiene inutile, a volte deluso dal proprio partito, altre volte nauseato dalla politica. Penserà: con me o senza di me non cambia nulla. Perché gli elettori di sinistra dovevano votare nelle Marche e in Calabria dal momento che era scontato che vincesse il candidato di destra? Così in Toscana, perché l’elettore di destra doveva andare a votare stante la certezza del successo del candidato di sinistra? In altri termini, nelle Marche e in Calabria gli elettori di sinistra hanno ritenuto che era inutile votare; altrettanto hanno pensato gli elettori di destra in Toscana. La pigrizia e un malinteso senso del voto hanno caratterizzato le elezioni. C’è evidentemente una questione psicologica dell’elettore che si sbaglia a non voler considerare in tutta la sua importanza.
Un po’ è accaduto anche per la polarizzazione della politica. All’interno dei due poli gli elettori si sentono meno motivati e determinanti che se si votasse con la proporzionale per il proprio partito, come accadeva al tempo del proporzionalismo, quando i partiti si impegnavano coi loro elettori per raggiungere il miglior risultato possibile da spendere poi nelle formazioni governative che seguivano. Allora, non a caso, si parlava di patriottismo di partito, di orgoglio di appartenenza; di distintivi all’occhiello. Oggi i vari partiti che compongono il cartello, sia a destra che a sinistra, non si sentono motivati. Così ci sono partiti, la Lega a destra e il M5S a sinistra, che battono la fiacca. A destra la Lega spesso non si riconosce nelle posizioni dei Fratelli d’Italia e di Forza Italia e non si sente motivata a portare voti leghisti ad una coalizione nella quale occupa una posizione piuttosto defilata. Così accade nel Campo del centrosinistra. I cattivi risultati del M5S parlano chiaro, il partito non si riconosce appieno in una coalizione in cui a tenere il vertice è un altro partito, in questo caso il Pd. Perché portare acqua ad un mulino che non è il proprio?
Il vero problema della nostra democrazia è la scarsa considerazione che i cittadini hanno del voto, non più pepita d’oro, ma pagliuzza. Ciò è accaduto per la loro crescente marginalità politica. Quando le campagne elettorali si facevano sulle piazze e i politici si rivolgevano direttamente ai cittadini, nel corso dei comizi, gli elettori si sentivano parte importante della politica fin dalla partecipazione al raduno. Oggi è come se tutto si svolgesse in un altrove non credibile, lontano, estraneo, come sono ormai i dibattiti disordinati nelle varie televisioni. I vari talk show di politici e giornalisti hanno tolto la scena ai cittadini, i quali si sentono esclusi dalla competizione politica. Quando si arriva al voto essi si sentono inutili, come se tutto dipendesse da altri fattori e non già dal voto espresso da ciascuno nella cabina elettorale. I sondaggi, peraltro, concorrono a convincere gli elettori che i giochi ormai sono fatti e che è del tutto inutile votare.
Occorrerebbe, a questo punto, un sistema di consultazione elettorale che restituisse centralità ai partiti e concreto protagonismo agli elettori. Fino a quando non si trova bisogna accontentarsi di quel che passa il convento, sperando che prima o poi l’elettorato recuperi entusiasmo e motivazioni per votare.
domenica 12 ottobre 2025
Israele-Palestina...alla prossima!
Storica è storica, la data del 9 ottobre 2025. Segna la pace tra Israele e Palestina dopo due anni e due giorni di guerra. Donald Trump è riuscito a domare Netanyahu e a farlo desistere da propositi che ormai perfino l’opinione pubblica mondiale riteneva inaccettabili. Le manifestazioni di questi ultimi tempi di protesta pro Palestina e contro Israele hanno risvegliato nel mondo un preoccupante spirito antisemita.
Le cose che si son viste e sentite sulla guerra iniziata il 7 ottobre 2023 con la strage di 1200 israeliani e 251 ostaggi presi da parte palestinese ai danni degli israeliani e sulla reazione di questi con 67mila palestinesi morti e la distruzione di un’intera regione sono degne del proverbiale aggettivo biblico. In quella terra, santa o promessa come la si vuol chiamare, tutto quello che accade è biblico, enorme, ad un certo punto insopportabile. È accaduto anche questa volta che torto e ragione tra le due parti si sono intrecciati al punto che la ragione dell’uno si è trasformata in torto e viceversa. La tragedia di questi due popoli sta proprio nel fatto che hanno ragione e torto insieme. Di qui l’impossibilità di concludere con una pace convintamente accettata dai due contendenti. Tutto sarebbe più semplice se una delle due parti avesse ragione e l’altra torto. E invece si è svolto tutto secondo copione: alla fine a giganteggiare col suo colossale torto è stato Israele, che all’inizio era partito con la ragione a gonfiare le vele della sua giusta vendetta.
Ma è veramente pace quella raggiunta negli accordi di Sharm El Sheikh? Se non fosse enorme pensarlo sembrerebbe una messa in scena per convincere la commissione del Premio Nobel riunita a Oslo per conferire il Premio a Donald Trump per i suoi meriti nel far cessare il fuoco a Gaza e nella restituzione degli ostaggi israeliani, morti e vivi. Quanto meno è legittimo nutrire qualche dubbio. Si fa fatica a pensare che sarà cancellata Hamas e ancor più la possibilità che si dia concretezza allo Stato di Palestina, che a questo punto non si sa più dove collocarlo. Si sa che Israele è contrario alla sua esistenza e che il territorio, la Cisgiordania, storicamente della Palestina, è di fatto occupato dai coloni israeliani, che difendono contro le loro stesse autorità. Al di là delle parole e degli intenti, a cui si può credere o meno, c’è la realtà che rende tutto più complicato.
Ad un certo punto è apparso chiaro l’obiettivo di Netanyahu, cancellare ogni possibilità per i palestinesi di avere uno Stato. L’occasione per farla finita una volta per tutte era proprio questa guerra, nata per un indiscutibile torto subito col bliz palestinese del 7 ottobre 2023. Se non ora, quando? Deve aver pensato Netanyahu. Un obiettivo folle, perché un popolo non sparisce mai e quando i suoi rappresentanti altro non possono per farsi le proprie ragioni ricorrono al terrorismo, alla guerriglia urbana. Di esempi ne abbiamo visti tanti. Proprio i palestinesi si sono resi tristemente noti per i vari attentati compiuti sia in Israele sia in Europa, Italia compresa. Lo Stato di Palestina è perciò la condizione più importante per la sicurezza dello stesso Stato di Israele. Si tratta di trovare i confini precisi di questo Stato, anzi di questi due Stati, di giungere al reciproco riconoscimento, di accettare un modus vivendi che se non è proprio idilliaco quanto meno privo di pretese rivendicazionistiche.
Ma il fatto stesso che si insista sul “due popoli due stati” dopo oltre ottanta anni di guerre dà il senso di quanto sia difficile sbrogliare la matassa. Il negato reciproco riconoscimento rende unico questo conflitto. Prima ancora di spartirsi qualche cosa, in questo caso il territorio, c’è che i due contendenti non si riconoscono, si escludono a vicenda. Prima era la Palestina a non voler riconoscere lo Stato di Israele, ora è anche lo Stato di Israele a non voler riconoscere uno Stato della Palestina, mentre la carta geografica politica interna del Paese è stravolta. La Cisgiordania, territorio palestinese, è oggi occupata da insediamenti di coloni israeliani; mentre l’altra parte di territorio palestinese, la Striscia di Gaza, è stata letteralmente svuotata dei suoi legittimi abitanti. Questo dà l’idea di quanto sia difficile ipotizzare una vera pace tra i due popoli e i due Stati. Se alla fine Netanyahu ha ceduto alla soluzione di Trump lo ha fatto per mettere provvisoria fine ad un processo di massacro, quasi di genocidio, che ha prodotto nel mondo un’ondata di sdegno e di antisemitismo pericoloso. Obiettivi ebrei da colpire sono in tutto il mondo e un popolo di disperati, come quello dei palestinesi, non ha bisogno d’altro per riprendere la sua guerra.
sabato 4 ottobre 2025
La Flotilla ha fatto putsch
Alla fine non c’è più niente da scoprire. I manifestanti Pro Pal, scatenati nel loro “blocchiamo tutto” in accompagnamento dell’avventura della Flotilla, hanno rivelato la loro vera finalità: “Meloni dimissioni”. Il governo deve cadere! Lo gridano nei loro slogan mentre sciamano per le vie cittadine di gran parte delle città italiane. Sarà pure che la Flotilla era globale, con quarantaquattro nazioni rappresentate, ma la nutrita componente italiana aveva scopi ben diversi dagli altri compagni di avventura. In nessun paese europeo si è verificato quanto sta accadendo in Italia. Mobilitazioni spontanee e massicce in ogni città, sciopero generale, scene da guerriglia urbana in tutto il Paese, attacchi dell’opposizione al governo, come mai in precedenza.
All’indomani dell’ennesimo successo del centrodestra, questa volta nelle Marche, i suoi nemici hanno colto l’occasione di Gaza per tentare la spallata e mettere in crisi il governo. Desiderare non è reato, specialmente in politica, dove tutto si può chiedere e pretendere nella convinzione che è sempre troppo poco. Così si diceva nel ’68, anno che sembra avvicinarsi a salti tripli.
Dove non arrivano col voto “lor signori”, i democratici!, cercano di arrivarci con la violenza, col disordine, col caos. Roba vecchia, saputa e risaputa. Che quella di Gaza fosse una scusa, ghiotta, lo si era capito da tempo. I flotillanti sono stati costretti ad ammetterlo dopo gli interventi del Presidente della Repubblica Mattarella e del Cardinale Pizzaballa, primate di Gerusalemme, che suggerivano come far recapitare gli aiuti ai palestinesi di Gaza senza forzare il blocco navale degli israeliani. Senza volerlo, i saggi consigli di questi due santi uomini hanno rotto le uova nel paniere dei flotillanti costringendoli a dichiarare le loro vere finalità politiche.
Ah, perché – hanno detto – davvero quelli pensano che noi vogliamo portare gli aiuti ai palestinesi e poi tornarcene come se avessimo fatto una scampagnata? Il nostro ha un obiettivo politico con tutte le conseguenze che ne possono derivare. In Italia, soprattutto, paese che più di ogni altro al mondo ha adottato la bandiera della Palestina come la propria bandiera politica. I bambini che muoiono, la fame, il genocidio c’entrano, c’entrano; ma intanto servono alla causa italiana. Non è un caso che nella Flotilla c’erano quattro parlamentari dell’opposizione; di ogni componente, del Pd, del M5S e dell’Avs. Una presenza più che simbolica, qualificante, di appropriazione degli esiti quali fossero stati. E se nel mare operavano i nuovi ulissidi, sulla terra ferma operavano i loro omologhi. I parlamentari dell’opposizione continuavano a bersagliare il capo del governo, accusato di essere complice di genocidio, mentre Landini, segretario generale della Cgil minacciava lo sciopero generale. Il resto, i soliti a scatenare il terrore urbano. Tutto concertato.
La tecnica è sempre la stessa: occupazione delle università, assalto alle stazioni, agli aeroporti, invasione delle piazze, sfascio di tutto ciò che capita. Pensano: il governo sarà costretto a mostrare il suo vero volto, quello repressivo. È o non è fascista questo governo? E allora la cosa è fatta! Se poi resta con le mani in mano, tanto peggio per lui, dimostra di non essere in grado di garantire l’ordine e la sicurezza e perderà la faccia nei confronti dei suoi sostenitori e del mondo.
Il governo, invece, coi suoi ministri di competenza, Taiani e Crosetto, Esteri e Difesa, ha svolto un compito irreprensibile, tutelando i flotillanti nostri connazionali, col solo limite di non provocare incidenti diplomatici. Che più? Taiani è rimasto continuamente in contatto col suo omologo israeliano per avere informazioni e rassicurazioni. Crosetto ha inviato una nave della Marina Militare per quanti avessero voluto desistere ove la situazione fosse degenerata.
L’impresa per certi aspetti, all’inizio, mostrava di essere suggestiva. Si trattava di forzare un blocco navale su barche in festa di bandiere e di sventolii. Gaza sembrava una specie di Fiume, la città conquistata nel 1919 dai legionari d’annunziani, tanto che anche tra i giovani di destra serpeggiava qualche simpatia. Si è risolta in un esito scontato. I flotillanti si sono pacificamente arresi ancor prima di entrare in acque territoriali controllate dagli israeliani, appena i militari della stella di David hanno loro intimato di alzare le mani e di lasciarsi arrestare. Il resto è grigio protocollo, burocratico iter, fino al ritorno di ognuno a casa sua sano e salvo, come volevasi che accadesse. O forse no! Resta in Italia tra i “palestinesi” la delusione per non essere accaduto nulla di importante che giustificasse l’assalto alla nazione, come già se ne vedono le imprese.
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