La politica non sembra ma ha una
sua sacralità. La presenza nel suo tempio di una profanità, per quanto ben
nascosta e mimetizzata, salta subito agli occhi dei suoi fedeli.
Da quando tra il M5S e la Lega è
nato il “governo del contratto”, per la prima volta in Italia – prima si era
sempre parlato di governi di più o meno larghe intese, di alleanze tattiche, di
transizione, di scopo, ecc. ecc. – è apparso chiaro che si trattava di una
novità. Del resto gli stessi protagonisti, i 5S soprattutto, lo accreditavano
come il governo delle “cose mai viste” in un continuo paragonarsi ai precedenti
governi, nella formula “mentre gli altri, noi”.
Lo scrittore politico Filippo
Ceccarelli si sarà felicemente ispirato proprio a questa formula
nell’intitolare il suo libro “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a
questi qua”. Ecco, la vera formula di governo 5S-Lega è proprio “dei questi
qua”, come a sottolinearne l’assoluta mancanza di colore politico o come a
marcarne la distanza “da quelli là”, i
politici della prima e seconda repubblica.
Alla formula del contratto, un
po’ anche per nobilitarla in qualche modo, si è voluto dare una dimensione populistica,
peraltro ben accetta ai protagonisti. I quali, come pirandelliani personaggi in
cerca d’autore, se ne sono calzati immediatamente. Vedi il Presidente del
Consiglio Giuseppe Conte, il quale si è subito presentato come l’avvocato del
popolo, nemmeno fosse uno di quegli avvocati della rivoluzione francese, un
Robespierre, un Desmoulins. Anche se dopo, più che porsi tra il governo e il
popolo in difesa di quest’ultimo, si è accomodato in una più modesta posizione tra
i due vice, in difesa del suo mandante Di Maio.
Ci poteva pure stare questo nuovo
arricchimento dell’inedita formula. In fondo tutti nel mondo ci riconoscono il
merito di reinventare all’occorrenza la politica. Dietro
le parole, però, ci sono i fatti. Nel contratto non è scritto: noi abbiamo
raggiunto un’intesa su ogni singola cosa da realizzare, ma noi parti contraenti
abbiamo stabilito di fare queste cose come ognuna delle due parti le ha promesse
al suo elettorato, queste a me e queste a te. Io non m’impiccio delle cose tue
e tu non t’impicci delle cose mie. E il popolo italiano? Quello ha votato e
tanto gli basta!
Può un governo, che abbia la
pretesa di durare per l’intera legislatura, attenersi rigorosamente a quanto
sottoscritto nel contratto? Salvini, che la sa più lunga di Di Maio, ha fatto
finta di crederci, sapendo che dopo sarebbe venuto il “bello”. Per Di Maio,
invece, quel che è venuto dopo è stato il “brutto” della situazione. I litigi
tra i due nascono e si consumano in questa diversa visione della politica:
flessibile per Salvini, rigida per Di Maio. Ovvio che abbia buon gioco Salvini
perché la politica è appunto flessibilità.
Il contratto 5S-Lega, con le
approvazioni incrociate, fa pensare ad una spartizione di ambiti di potere e di
soluzioni, senza offesa, da patto mafioso. Diviso il potere delle cose da fare in
mandamenti ciascuno realizza le cose sue nel proprio senza che l’altro ci metta
il becco. Così, invece di trovare un’intesa sulla Tav, sulla Fornero, sul
reddito di cittadinanza, sulla tassa piatta, sull’immigrazione, sulla sicurezza
e via contrattando, i due soggetti politici-boss, si sono spartito il potere
mandamentale: io faccio quel che mi pare su questi punti benché tu non li condivida,
in cambio io ti lascio fare le tue cose che io non condivido. Così,
catafottendosene (Camilleri copyright)
dei rispettivi elettorati, ovvero dei loro tanto adorati popoli.
Ad avere la peggio in termini di
consenso non potevano che essere i 5S, i quali sono nati per non spartire
niente con nessuno, all’insegna dell’antipolitica. Ovvio che nel momento in cui
il M5S ha dovuto concedere alla Lega alcuni punti il suo popolo in parte è
rimasto deluso, in parte si è arrabbiato.
Era inevitabile che prima o poi
si sarebbe arrivati allo scontro. Il punto è arrivato con la Tav. In un paese normale,
governato perfino da ministri corrotti ma competenti e capaci, dotati del senso
dello Stato, si realizzerebbe senza problemi. Ci sono degli accordi
internazionali approvati dal Parlamento, i lavori preparatori per l’inizio dello
scavo del tunnel che deve congiungere Torino a Lione sono stati iniziati da
anni, si devono fare i bandi con le imprese, ci sono i finanziamenti europei…
E, allora, che si aspetta? C’è che nel contratto di governo la Tav è prevista,
ma come ridiscussione: “Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione,
ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell'applicazione
dell'accordo tra Italia e Francia". Questo dice il contratto. Perciò pacta sunt servanda, dicono con parole
loro i 5S. Se il capo dell’altro mandamento fa il furbo, perché il suo popolo
la Tav la vuole senz’altro, deve sapere che si ritorceranno contro tante altre
cose che gli sono state concesse solo per rispettare il contratto. “Bada,
Salvini – ha detto Di Maio – che per il caso Diciotti deve ancora votare il
Senato, perciò, regolati”. E Salvini, che tanto sa che la Tav prima o poi si
farà, si è regolato, accettando la soluzione provvisoria di congelare la questione
fino alle elezioni europee del 26 maggio.
Le opposizioni hanno ragione a
denunciare il fallimento del governo e soprattutto della formula contratto. Questo,
infatti, prevede sempre che le parti contraenti siano sovrane, che non debbano
rispondere a nessuno delle loro scelte. Ma in politica non è così. Non c’è rappresentanza
che non debba dar conto. Se di questo se ne impipa, prima o poi ne paga le
conseguenze. In politica come in natura il corso delle cose non lo puoi
cambiare, perché sia l’una che l’altra si riprendono ciò che appartiene loro:
la natura si riprende il territorio, la politica i voti e dunque il potere.