Il 26° anniversario della strage
di via D’Amelio a Palermo, avvenuta il 19 luglio 1992, in cui morirono il
giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta, è stato anticipato
di pochi giorni dalla deposizione da parte della Corte d’Assise di
Caltanissetta delle motivazioni della sentenza del processo quater, quello dei
depistaggi (30 giugno). 1.865 pagine in cui i giudici spiegano perché le
indagini su quel terribile atto di guerra della mafia contro lo Stato furono
depistate da settori dello Stato stesso. Ed è coinciso con le motivazioni della
sentenza della Corte d’Assise di Palermo (19 luglio), che conferma che la trattativa Stato-mafia
ci fu ed ebbe come effetto l’accelerazione della strage di via D’Amelio.
Condannati, come non poteva non accadere, i soli militari coinvolti. I politici
dell’establishment? Alcuni morti,
altri moribondi; poi il solito Marcello Dell’Utri, refugium peccatorum, e l’ex Ministro degli Interni Nicola Mancino,
il quale non poteva …pagare per tutti. Ma la verità acclarata di queste due
sentenze è che lo Stato sa essere criminale quando lo ritiene “necessario”.
Che lezione deve trarre il popolo
italiano da quest’altra tristissima vicenda? Se invece di vivere in un paese
democratico vivessimo in una dittatura, probabilmente la magistratura non
sarebbe giunta alle conclusioni a cui è giunta e cioè che a depistare le
indagini sulla strage sono stati uomini delle stesse istituzioni.
Ma la domanda d’obbligo per chi
ancora non ha il cervello in umido è per conto di chi hanno agito i
depistatori? Cui prodest? si
chiedevano i latini. A chi ha giovato la morte di Borsellino e a chi sono
giovati i depistaggi per non giungere a sapere chi è stato e perché?
La risposta è scontata. La trattativa con quel che segue ha
giovato alla mafia; ma la mafia non è tale se non ha agganci organici agli
apparati delle istituzioni. Senza questi agganci non si può parlare di mafia.
Certo non basta la colpevolezza
di un questore o di qualche ufficiale dei Carabinieri per dire che lo Stato ha
tradito se stesso, che Borsellino è stato ucciso con la complicità dello Stato.
Ma il caso Borsellino giunge in Italia dopo molti altri gravissimi eventi
terroristici, a partire dal caso Mattei dell’ottobre 1962, in cui quando non è
stata affermata la presenza dello Stato non è stata nemmeno esclusa o nelle
fasi esecutive dei misfatti o nei successivi depistaggi.
Si sa che la mafia ricorre
all’eliminazione degli ostacoli che le impediscono di operare nel malaffare e
nel potere quando non ha altri metodi e quasi sempre dopo averli esperiti
tutti. La soluzione traumatica è l’extrema
ratio.
La lezione che si può trarre
dalla vicenda Borsellino è devastante. Per un verso si conferma che una parte
dello Stato, deviata si dice, è organica alla mafia in forme stabili e
continuative. Dal caso Mattei ad oggi sono trascorsi 56 anni, sono tanti, sono
troppi per non avere il timore che il male di cui è affetto lo Stato è cronico
e sempre pronto a riacutizzarsi. Per un altro il sospetto che nell’affare
Borsellino sia implicata la politica in una delle sue più importanti evoluzioni
degli ultimi cinquant’anni, ci fa pensare che questa nostra democrazia, che si
sputtana al punto di dire papale-papale di essere lei stessa colpevole dei mali
di cui soffre il paese, non è più da preferire ad occhi chiusi ad una dittatura
solo perché questa occulta le malefatte e lei no. Per non giungere all’assai
più deprimente conclusione che una dittatura si può macchiare di nefandezze
quanto si vuole, ma non lo fa mai in combutta con un soggetto, come la mafia,
che è per definizione e storia nemica dello Stato. Si può tollerare che lo Stato non riesca per
debolezza a fronteggiare la mafia, ma non si può tollerare che diventi esso
stesso mafia al punto da determinare svolte politiche con metodi e materiali
mafiosi. Il Paese non può porsi di fronte ad una scelta tra una democrazia
mafiosa e una dittatura che almeno garantisce la tenuta dello Stato.
Quando ciò accade gli esiti
potrebbero essere terribili. Da cittadini non ce lo auguriamo, ma non possiamo
neppure cedere al ricatto di un “soggetto” che, nonostante processi su
processi, sentenze su sentenze, alla fine rimane sempre inconoscibile e perciò
irresponsabile.