sabato 26 luglio 2025
Tra genitori e figli ormai c'è il vuoto
Le trasformazioni sociali sono processi lunghi e lenti, all’inizio non fanno mai pensare agli sviluppi più estremi. Oggi noi viviamo le fasi avanzate di un processo che vede lo stravolgimento dell’istituto più antico, millenario, quello della famiglia. È crisi dell’insieme e dei singoli membri.
Oggi i giovani, in età genitoriale, non vogliono fare figli, si rifiutano di essere padri. Per un altro verso i giovani, nella loro condizione di figli, dei genitori e della famiglia non ne vogliono sapere. Giunti all’età di essere indipendenti se ne vanno, prendono strade che li portano lontano. Insomma genitori e figli non sono più gli uni continuatori degli altri; non vogliono far parte della stessa catena. I primi non creando figli, i secondi, quando ci sono, allontanandosi dai genitori. Si vedono gli effetti: calo delle nascite per un verso, fuga dei giovani per un altro. La conseguenza è lo spopolamento. Questo lo registrano anche fonti istituzionali come l’Istat.
Il fenomeno è fondamentalmente del Sud, categoria geo-antropologica “dannata”. Ma se è vero che non è facile realizzarsi nel Sud, ci sono anche casi comodi e scontati, che vengono rifiutati. Ci sono famiglie che hanno raggiunto un grado di benessere importante, con attività commerciali e industriali ben avviate, create e condotte con spirito weberiano, che, data la strada diversa intrapresa dai figli, sono costrette a chiudere o a vendere. Molti posti di lavoro si perdono così. Molti antichi mestieri spariscono così.
Si dice che è normale che uno cerchi condizioni di vita migliori. La migrazione lo dimostra, ad ogni livello. Ma spesso i tanti giovani che se ne vanno e lasciano la famiglia non raggiungono che risultati modesti, inferiori che se fossero rimasti a casa. L’agognato stipendio mensile, facendo l’impiegato, è niente rispetto a quello che l’azienda di famiglia avrebbe potuto garantire loro. Questo sta a dimostrare che non è neppure questione di convenienza, ma di rifiuto culturale. I giovani che se ne vanno lo fanno perché non vogliono fastidi dai genitori che invecchiano. I genitori che non vogliono figli in realtà non vogliono fastidi per crescerli e portarli fino all’età dell’indipendenza dalla famiglia per poi vederseli sparire sul più bello. Il problema che si sta delineando è ben più grave dei soliti banali conflitti generazionali di sempre. Qui, alla base, da una parte e dall’altra, c’è un rifiuto radicale. Di fronte a quanto mostrano oggi i figli, insensibili e irriconoscenti nei confronti della famiglia, i giovani sposi si guardano bene dal mettere al mondo figli ingrati, che proprio quando c’è più bisogno di loro non ci sono, sono altrove, a condurre una vita magari peggiore che se fossero rimasti “a casa”. Sono le conseguenze della frantumazione famigliare. La famiglia non c’è più, sparita e con essa l’etica famigliare, le consuetudini, le tradizioni, i ruoli, la casa. L’ambita casa! La sacra casa! A tanto si è giunti per il progressivo smantellamento di una cultura millenaria follemente aggredita dal modernismo degli anni Sessanta e Settanta. L’ultimo bombardamento la famiglia l’ha ricevuto con l’attacco al patriarcato. Improvvisamente è stato tirato fuori quest’altro pilastro per colpirlo furiosamente in quanto base del tradizionale impianto famigliare.
S’incominciò con le coppie di fatto: giovani che hanno preferito mettersi insieme piuttosto che sposarsi regolarmente. Il marito di una volta è diventato il compagno. Lo Stato ha fatto la sua parte legalizzando i mutamenti provenienti dalla società. Un dato costante di queste unioni è la mancanza di figli. Un altro fenomeno che ha intaccato la famiglia è stato la facilitazione del divorzio, che ha interessato un numero sempre crescente di giovani, i cui matrimoni durano a volte pochissimo. Non sembra esserci rimedio. Un’alternativa alla famiglia tradizionale che garantiva una continuità senza soluzione è la cosiddetta famiglia “queer” (la parola significa diverso ma anche ridicolo), così come delineata dalla scrittrice sarda Michela Murgia, una famiglia basata non sui ruoli derivanti dal matrimonio ma sulla spontanea cura. Non più ruoli ma assistenza reciproca. Va da sé che di figli, in un disordine simile, nessuno si sogna di farne; è una “famiglia” dove nessuno ha un ruolo specifico, ma ognuno è “tutto” per l’altro. Per trovare qualcosa di simile nella storia bisogna andare al medioevo, quando singole persone si riunivano in comunità e chiedevano al papa la concessione della regola. Erano i frati, dai quali sono nati gli ordini religiosi. Un nuovo monachesimo ci attende, per di più senza “regola”.
sabato 19 luglio 2025
I mille giorni di Giorgia
In questa metà di luglio, giorno più giorno meno, Giorgia Meloni “celebra” i suoi mille giorni di governo. Spesso noi uomini ci inventiamo le datazioni un po’ per comodità di storici e un po’ per vanità di politici. All’evento la Presidente del Consiglio ha dedicato un’intervista su RaiUno il 17 luglio. Ha detto delle cose ovvie ma non inutili, ha ricordato i punti salienti della sua opera di governo. Fra tutti ha sottolineato il calo di sbarchi di migranti sulle nostre coste, la creazione di un milione di posti di lavoro e l’avvio di numerose riforme, fra cui il premierato e la giustizia. Altri della sua area hanno voluto ricordare un aspetto importante del suo ormai quasi triennio di governo: l’assoluta normalità. Chi temeva derive autoritarie o colpi si stato, manifestazioni di intolleranza e approcci duceschi ha dovuto una volta tanto tacere. Si spera che il silenzio diventi esso stesso normalità, mi riferisco al silenzio su immaginati e temuti slittamenti autoritari. Sarebbe un bel traguardo in questo paese in cui in occasione, l’anno scorso, del ricordo di Matteotti, c’era chi si avventurava in paragoni con la realtà odierna assolutamente capotici per non dire altro. Certo, c’è da capire. Quello della paura del fascismo è una bella carta da giocare nell’eterna partita della propaganda elettorale. Perderla, quella carta, s’impoverisce il mazzo e si è costretti a trovare nell’abilità del gioco le risorse per vincere le partite. Se si finisse di barare, sarebbe una crescita per tutti.
Non sono mancati, tuttavia, nel corso di questi mille giorni, tentativi di curvare verso interventi autoritari taluni scontri di manifestanti delle sinistre con le forze dell’ordine. Sono venuti fuori casi di scoperte di eventi privati in cui qualcuno si esibiva in saluti fascisti per sostenere che “questi”, i fu missini, non cambiano mai, sono sempre gli stessi maledetti fascisti che dicono di non avere niente a che fare col fascismo politico. Perfino per il Decreto sicurezza, di recente approvato, si è cercato di scomodare prospettive liberticide, cui non sono stati estranei taluni magistrati.
Quel che è stato dirimente nella messa da parte di ogni seria insistenza sul fascismo è stato il grande successo della Meloni in tutto il mondo. Già all’inizio del suo governo si capì che era sbagliato insistere su questo tipo di critica perché era come dire al mondo che l’Italia era un paese fascista. Man mano che la Meloni veniva accolta in tutto il mondo da capi di stato e di governo con simpatia e rispetto sarebbe stato suicidario insistere su dei tasti assolutamenti sconnessi dalla realtà. In un mondo dilaniato da una guerra mondiale, a pezzi la chiamava Francesco, con efferatezze indicibili in Ucraina e in Israele, chi potrebbe dar credito che in Italia al governo ci sono i fascisti? Forse siamo stati noi, in Italia, gli ultimi nel mondo a renderci conto che era infantile gridare all’orco della favola. L’unico motivo di una qualche preoccupazione è stato il caso del Generale Vannacci, il quale peraltro è l’unico nel centrodestra che non si preoccupa di ostentare parole e modi richiamanti il Ventennio. Ma proprio per l’ex Generale della Folgore è più lo sfottò per le sue uscite da parte delle opposizioni che un autentico sdegno, come a rendersi conto che su certe cose insistere è ridicolo.
Tutte rose e fiori, allora, i mille giorni di Giorgia? Sarebbe sciocco pensarlo, anche se il dato che rende il governo Meloni saldo in sella non è nel governo è fuori ed è nelle opposizioni che sono ben lontane dal costituire una alternativa possibile e credibile. Si potrebbe dire che la vera forza di Meloni sia la mancanza di un avversario. La temuta deriva meloniana di Calenda, peraltro, e il passaggio di una consigliera comunale romana dal Pd a FdI fanno pensare a quel fenomeno tipicamente italiano dell’andare in soccorso del vincitore, che incomincia a manifestarsi. Certo, non è il caso per nessuno di mettersi a dormire sugli allori. Anche il centrodestra subisce la forza internazionale della Meloni e tacita fin dal nascere ogni polemica ed ogni dissenso. Conosciamo la situazione politica italiana e sappiamo che non ci vuole molto perché cambi. I risultati delle prossime elezioni regionali potrebbero dare uno scossone importante alla maggioranza specialmente se si dovesse perdere il Veneto, come accadde qualche anno fa a Verona, dove con una maggioranza elettorale di centrodestra, spaccato, si finì per regalare al centrosinistra il Comune. Le rogne quotidiane, inoltre, non mancano mai. Nei decorsi mille giorni sono state contenute e nascoste. I giorni che verranno saranno sicuramente più impegnativi, come in genere sono le code.
sabato 5 luglio 2025
Lo storico segue la verità, il politico l'interesse
Se mi si chiedesse di professare pubblicamente l’antifascismo come è stato chiesto più volte e inutilmente a tanti esponenti di Fratelli d’Italia, mi rifiuterei, non già perché io mi consideri fascista, ossia perseguitore di una dittatura, cosa ben lontana dai miei pensieri, ma perché lo ritengo un non senso. Non si può essere contro una cosa che non c’è o che tu non puoi evitare se dovesse concretizzarsi. Come il Filosofo disse: non temo la morte perché quando c’è la morte non ci sono io e quando ci sono io non c’è la morte così per il fascismo: quando c’è il fascismo non c’è libertà e quando c’è libertà non c’è fascismo.
Avevo un amico molti anni fa, che era fascista a Taurisano, suo e mio paese natale; liberale a Firenze, dove studiava; comunista a Trento ai tempi di Sociologia. Sì, mi confessò, mi adeguo, non sopporto diversificarmi in qualsiasi ambiente capiti. Pensa, aggiunse, che nel palazzo dove abito sono quasi tutti interisti ed io che da sempre sono juventino mi dico interista per non dispiacere ai più. Questa tendenza oggi si chiama mainstream, una parola inglese che sostituisce banderuola, più modesta ma assai più convincente. Gli risposi che il suo comportamento era tipico del politico, che ovunque si trovi cerca di non dispiacere a nessuno, il suo scopo essendo il consenso degli altri. Non volli scomodare moti caratteriali per non fare il moralista della circostanza.
Ma è cosa che può essere giustificata? Dal punto di vista politico sì, dal punto di vista storico no. Chi ha una mentalità di storico sa che qualunque idea, condivisa o meno, può avere avuto nel tempo un periodo di consenso, di condivisione diffusa, può aver costituito la morale comune, indiscussa. Chi non era fascista durante il fascismo era un reprobo e si guardava dal dirsi antifascista; l’esatto opposto oggi. Prendiamo il patriarcato. Questo ha costituito per millenni la base su cui si reggeva la famiglia e ad altra dimensione la società, comunque una qualsiasi aggregazione sociale organizzata. Oggi il patriarcato è una “parolaccia”, da respingere, da condannare, di cui vergognarsi. Così per tantissime altre certezze considerate assolute per lunghi, lunghissimi o brevi periodi. Si pensi all’omosessualità, non moltissimi anni fa condizione da nascondere, da biasimare, oggi si ostenta in festa e il gay-pride si festeggia ogni anno in oceaniche partecipazioni in tutte le grandi città del mondo come, considerando le dovute differenze, una volta le processioni per le feste patronali, a cui partecipava tutto il paese, con le confraternite dietro labari e simboli.
Lo storico, che resta freddo e impassibile di fronte a certezze rovesciate, nuovi e vecchi idola, sa che tutto passa e qualche volta ripassa (corsi e ricorsi) e che non indignarsi per un’affermazione o una negazione da gran parte degli altri condivise, non è cinismo, è consapevolezza che così vanno le cose del mondo. Ciò che oggi è condannato, ieri era osannato; ciò che oggi è respinto potrà avere domani un ritorno. Con la sua visione ampia e articolata lo storico, privo di interessi nell’immediato, sembra giustificare tutto, perché tutto non è che il prodotto della storia. Lo storico non condanna, non approva, non respinge; cerca di capire e di spiegare. Per questa sua condizione spesso è biasimato, tacciato di insensibilità quando non addirittura di nascondere dietro lo storicismo sue convinzioni personali che non avrebbe il coraggio di professare apertamente. La condizione dello storico o del politico è un modo di porsi diffuso di fronte alle cose, per cui non si deve essere necessariamente storici o politici di professione per assumere determinate posizioni. In un qualsiasi individuo può essere prevalente la visione storica, in un altro quella politica.
Nei confronti del fascismo l’approccio diventa radicale e non si fanno sconti. Politico o storico che uno sia, deve condannarlo senza se e senza ma, come si dice. Chi non lo fa va incontro ad incomprensioni ambientali.
Sono di destra e ho nei confronti del fascismo un interesse puramente storicistico, convinto che politicamente esso potrebbe pure ritornare in forme diverse per quei fenomeni tipici della storia, la domanda che mi pongo e che pongo agli altri è: si può parlare di fatti accaduti senza il precipuo interesse di fare propaganda politica in un senso o nell’altro? La mia risposta è decisamente sì, non solo si può, ma si deve. Lo storico, nel cercare la verità storica, può incorrere in un errore involontario; il politico, invece, sa di affermare il falso, consapevolmente, per il proprio interesse.
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