sabato 16 agosto 2025

Con la morte sul collo

È proprio vero, la morte ciascuno di noi ce l’ha sul collo; e quando meno ce l’aspettiamo ecco che ci rovina addosso con tutta la sua fatalità. Una povera cristiana scende dal tram per avviarsi verso casa e viene travolta e uccisa da un’auto a bordo della quale ci sono quattro ragazzini. Il più grande, che la guida, ha tredici anni e ha la prontezza di dire che non gli sono funzionati i freni. Sono tutti dei rom al di sotto dei quattordici anni, per la legge italiana non sono imputabili. Dunque, per quella povera cristiana è come se gli fosse caduto addosso la scheggia di un meteorite. Loro, i ragazzini, non sono imputabili! E i loro genitori? Le loro famiglie? Le autorità cittadine che comunque nulla hanno fatto nei tempi precedenti per evitare la tragedia, ritenendo presumibile che questa gente era lì accampata da tempo? Niente, i ragazzini non sono imputabili e buonanotte al secchio. Ci sono solo dei piccoli adempimenti da fare per il loro affidamento a qualche struttura. Poi, più niente. Quando la società si dimostra così impotente vuol dire che si è in presenza di un dissesto ideologico grave. Se ne prende atto e basta. Ma è proprio così? Il Ministro Salvini si è permesso di sollevare la questione rom ed è stato subito zittito dal sindaco della città, che nei confronti di questa gente evidentemente ha un rapporto di buona vicinanza, direi di generosa tolleranza. Il problema, che tale non è per tutti, si pone ogni volta che accade una disgrazia, un incidente, una questione. Si parla per qualche giorno, poi si tace fino a nuova disgrazia. Come se tutto fosse fatale, inevitabile. A chi càpita, càpita. Un disgraziato, più disgraziato di altri c’è sempre. Ma è di tutta evidenza che se nulla si poteva fare nell’immediato per evitare la disgrazia di quella donna, tanto, tantissimo si sarebbe potuto fare prima. Quei quattro ragazzini, le loro mamme, i loro papà non dovevano stare lì ad abitare sub divo come animali in un bosco. E infatti che fanno quei ragazzini, lasciati liberi di muoversi a piacimento? Quello che gli càpita. Rubano una macchina. Mica il borsello lasciato incustodito da una signora distratta! La mettono in moto e iniziano a scorrazzare per la città fino a quando non perdono il controllo del mezzo e…si salvi chi può! Perché, se è vero che i ragazzini non sono imputabili, l’età per capire come si ruba una macchina, si mette in moto e via, altro che se lo sanno! La delinquenza minorile ormai è da anni che ha abbassato la soglia. Sempre più ragazzini aggrediscono persone anziane e indifese nei parchi pubblici, per strada; si affrontano in bande, compiono gesta vandaliche ai danni di cose pubbliche e private. Fanno quello che prima facevano i ragazzi di quindici e sedici anni. Ma la soglia dell’imputabilità è rimasta sempre quella dei quattordici anni. Segno di umanità e di civiltà giuridica. Se no, che altro? Qualche anno fa sempre il Ministro Salvini si fece riprendere a bordo di una pala meccanica mentre smuoveva tende e accampamenti rom. A che cosa è servito se non a fare propaganda elettorale? Dove amministra la destra accadono esattamente le stesse cose di dove amministra la sinistra. Le leggi son…come diceva Dante. Non è questione di destra o di sinistra, ma di “italianità”, di modo di intendere i problemi e di non risolverli. Spesso mi chiedo come mai in una qualsiasi località della Svizzera, dove mi è capitato di vivere per qualche anno, cose del genere non potrebbero mai accadere. Lì, in Svizzera, se ti fermi con un camper per più di un quarto d’ora in un punto qualsiasi del territorio sei raggiunto dalla polizia, che controlla e prende i provvedimenti del caso. Campi nomadi, raggruppamenti rom in quel paese fuori controllo non se ne potrebbero mai verificare. Gruppi di ragazzini che sciamano per strada, nemmeno a immaginarseli! Perché in Italia non è possibile quel che è possibilissimo in Svizzera? Sono forse gli svizzeri degli odiosi disumani? Amano vivere nella dittatura più ferrea? No, semplicemente in ogni cittadino svizzero c’è un poliziotto che interviene puntualmente all’interno e all’esterno di sé perché la legge non venga infranta, disattesa, ignorata. In Svizzera il cittadino ha sempre la mano destra pronta a colpire la mano sinistra se questa non dovesse comportarsi a modo. Altro che non sappia la mano destra quel che fa la sinistra! In Italia siamo nelle mani di Dio con quel che significa l’espressione, ovvero del caso, della fortuna. L’episodio triste di quella povera cristiana, morta senza sapere perché, fa riflettere sulla impossibilità, tutta italiana, di coniugare l’ordine con la libertà.

sabato 9 agosto 2025

Più amor di patria, via!

Presto i nostri bambini vedranno nei teatrini dei parchi pubblici giudici e politici che si randellano a vicenda come paladini e saraceni. Sono diventati maschere fisse dello spettacolo pubblico. Colpa bipartisan. In Italia la giustizia fa sempre politica: le cose sono come le percepisci. Il caso Almasri torna impetuoso alla ribalta. Con le solite ricadute giustizialpolitiche. Da una parte i giudici, che fanno finta di non sapere che coi loro atti la politica la fanno, eccome!, dall’altra i politici, che trovano nelle loro riforme sgradite ai giudici la ragione dei loro attacchi. La vicenda del generale libico, che se ne andava in giro per l’Europa ad assistere alle partite di calcio delle squadre più rinomate, è nota. Dall’Italia all’Inghilterra, dall’Inghilterra al Belgio, dal Belgio in Germania, dalla Germania in Italia; più volte fermato e rilasciato. Ma quando fu in Italia, la Corte Penale Internazionale dell’Aja emise contro di lui un mandato di cattura per reati gravissimi. Non prima, si badi bene, ma in Italia, a Torino! Il ricercato, che ha il suo spazio di operatività sulle coste libiche coi migranti, è un pericoloso soggetto, con un suo personale seguito. Lo vedemmo appena sceso dall’aereo che lo aveva riportato in Libia essere accolto con giubilo dai suoi fedeli. Conveniva impacchettarlo e portarlo via, nella sua terra, a prescindere se ci fossero o meno dei ricatti libici. Consegnarlo all’Aja significava esporre i nostri connazionali che si trovano in Libia per lavoro a gravi ritorsioni. C’è poco da fare con questa gente. Opera fuori da ogni legalità. Lo sanno i giudici italiani. Lo sanno i politici italiani dell’opposizione, che chissà cosa avrebbero pagato per vedere il governo italiano ricattato da bande di delinquenti libici sequestratori di nostri connazionali! Sia chiaro! È cosa vecchia da noi, pur di mettere in difficoltà l’avversario non ci si fa scrupolo di niente, figurarsi della …patria. Fece bene il governo italiano a riportarlo in Libia senza tanti indugi? A ragionare col buon senso, sì: non poteva fare altro. Ma, a cavillare in termini giuridici e a speculare in termini politici, no: andava consegnato ai giudici della Corte Penale Internazionale. Poi per il nostro governo sarebbero state cose amare. E questo avrebbe fatto brindare al successo giudici e politici di opposizione. Il cinismo regna in politica in ogni riposto. È inutile essere ipocriti e negarlo. C’è del marcio nell’affare Almasri, comunque lo si voglia vedere. Primo, perché la Corte Penale dell’Aja non emise prima il mandato di cattura? Secondo, perché più volte fermato in Inghilterra e sul continente, Almasri non fu trattenuto in attesa delle disposizioni della Corte Penale? È di tutta evidenza che il caso ebbe un inizio e un percorso peggio che dire alla buona. Ognuno cercò di liberarsi del soggetto come di qualcosa di tossico. E doveva essere proprio l’Italia a consegnare alla Corte Penale il ricercato per una caterva di reati, uno peggio dell’altro? Già, ci doveva essere un fesso col cerino in mano. Ora, bene ha fatto la Meloni ad assumersi le responsabilità di quanto operato dai suoi ministri nel caso Almasri, un’occasione d’oro per infliggere al “Conte qualsiasi” un colpo di quelli che lasciano tramortiti e a tutta la compagnia cantante. Finirà che il Parlamento rifiuterà l’autorizzazione a procedere contro i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano e le opposizioni probabilmente ricorreranno alla Corte Penale per denunciare il comportamento del governo. Ma qui ci si dimentica della gente, che è poi ciò che conta di più, nei sondaggi e nei voti. Che cosa pensa della vicenda? Sta col governo o coi giudici; col governo o coi suoi oppositori? La gente ha capito perfettamente la posta in gioco, anche perché nessuno la nasconde. La gente sta dalla parte di chi ha agito per il bene degli italiani. Se avessimo consegnato il generale libico alla Corte Penale dell’Aja avremmo avuto sicuramente dei problemi piuttosto importanti coi libici; avremmo esposto i nostri concittadini a rappresaglie e ritorsioni. In passato i nostri governi non si sono comportati diversamente. Se pure, perciò, l’intera operazione lascia non pochi punti oscuri è evidente che il governo ha agito per evitare il peggio. E chi può condannare chi agisce in siffatta maniera? I sofisti che spaccano il capello in quattro e i politici interessati a creare problemi al governo sicuramente non la finiranno qui. Gli altri, la gente comune, pragmatica e lieta di aver evitato una situazione complicata per il proprio Paese, penseranno che il governo abbia fatto bene. Probabilmente non è la cosa più bella, intendiamoci, ma è sicuramente la più utile e la più capibile dagli italiani.

sabato 2 agosto 2025

Ma governare si può in questo paese?

Ancora una volta dei giudici, questa volta della Corte di Giustizia Europea, sono intervenuti per dire che è legittimo che sia un giudice a stabilire se un Paese è sicuro o meno. Per loro è sicuro quel Paese in cui non ci sono guerre, in cui nessuno corre il rischio di subire discriminazione e persecuzione. Stando così le cose e conoscendo quanto accade nel mondo, nessun Paese è sicuro “in assoluto”, compresi gli Stati Uniti d’America, compresa l’Italia. In ogni parte del mondo si può dimostrare che ci sono dei perseguitati, che esistono condizioni di pericolo. Sicché quanti ne vengono vengono in Italia di migranti, fossero pure milioni, dovrebbero essere ben accolti perché provenienti da paesi “insicuri”. E a dirlo non è il Governo, a cui spetta il dovere di assumersi ogni responsabilità dell’azione politica ma il primo giudice che si alza la mattina e pontifica su quel che quel giorno più gli aggrada. Sicché, mentre il governo è responsabile di quel che accade nel nostro Paese, a decidere se una cosa si deve o non si deve fare, sono altri, in questo caso i giudici. I quali, forti dell’obbligarietà dell’azione penale, possono intervenire dove vogliono o ritengono opportuno. Alla pronuncia della Corte Europea ha gioito anche l’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei per i migranti, il quale è andato oltre con affermazioni indegne di un prelato. A suo dire il governo italiano in maniera subdola mette in essere degli atti illegittimi nei confronti di migranti ritenuti non in regola, in riferimento al Cpr di Albania. L’alto rappresentante della Chiesa è del parere che qualunque migrante, per il fatto di essere un migrante, viene da un paese in cui non si sente al sicuro. Altrettanto forte è giunta la replica del Governo. La Presidente Meloni ha risposto a muso duro sia alla Corte di Giustizia, accusata di competenze indebite, sia all’arcivescovo Perego. Anche i leader della maggioranza governativa, Salvini e Tajani, hanno risposto con determinazione, ribadendo che il Governo continuerà ad andare avanti con le sue politiche per combattere i trafficanti di esseri umani e per difendere i confini italiani. Quel che ancora una volta emerge da questo intrecciarsi di competenze è che ormai non si può più governare. Qualsiasi atto, a giusta o ingiusta ragione, capziosamente o razionalmente, viene impugnato dalle opposizioni politiche, dalla magistratura, dalla Chiesa, dai sindacati, dagli oppositori di strada, pur di impedire al Governo di governare. Viene di ricordare quanto disse Mussolini negli ultimi tempi della Repubblica di Salò: in Italia non è né facile né difficile governare, è inutile. Ma forse lui pensava ancora da dittatore, avendo potuto governare per vent’anni. Oggi governare è semplicemente impossibile. Hai a che fare con una caterva di nemici, i quali se pure è legittimo che ti combattano, non è accettabile che per farlo vadano contro gli interessi del comune Paese di appartenenza. Vedi con quanta iattanza e soddisfazione i vari Schlein, Conte, Renzi e compagni parlano del miliardo di euro speso dal governo italiano per costruire il Cpr in Albania, pur fingendo di dolersene; sarebbero doppiamente “contenti” se i miliardi spesi fossero stati due. È la democrazia, bellezza! È pur vero che molto spesso a legarsi le mani sono gli stessi governanti, i quali aderiscono ad astratte iniziative internazionali, senza considerare tutte le conseguenze. Vedi la Corte Penale Internazionale dell’Aja che ha condannato alcuni uomini politici, come Putin e Netanyahu, sui quali pesa un mandato di cattura internazionale. Sicché se oggi si decidesse di fare in Italia un incontro per la pace tra Russia e Ucraina non sarebbbe possibile per l’obbligo che scatterebbe di arrestare Putin. Un inghippo del genere è già successo con il Generale libico Almasri, che condannato dall’Aja e arrestato a Torino, invece di essere consegnato alla Corte Penale dell’Aja per i dovuti provvedimenti, fu messo su un aereo di Stato e riportato in Libia. Un chiaro atto eversivo, che si spiega con la ragion di Stato, ovvero per evitare che, consegnando Almasri all’Aja, ci fossero ritorsioni nei confronti dei nostri connazionali che lavorano in Libia. Purtroppo con molta leggerezza i politici si legano le mani da sé con lacci e lacciuoli, che poi devono o spezzare, contravvenendo alle convenzioni, o rispettare rimanendo fermi nell’inazione. Politici più lungimiranti, proprio per non crearsi problemi, non aderiscono a simili istituzioni internazionali, che sono buone e nobili nelle intenzioni ma complicate nella fattualità.

sabato 26 luglio 2025

Tra genitori e figli ormai c'è il vuoto

Le trasformazioni sociali sono processi lunghi e lenti, all’inizio non fanno mai pensare agli sviluppi più estremi. Oggi noi viviamo le fasi avanzate di un processo che vede lo stravolgimento dell’istituto più antico, millenario, quello della famiglia. È crisi dell’insieme e dei singoli membri. Oggi i giovani, in età genitoriale, non vogliono fare figli, si rifiutano di essere padri. Per un altro verso i giovani, nella loro condizione di figli, dei genitori e della famiglia non ne vogliono sapere. Giunti all’età di essere indipendenti se ne vanno, prendono strade che li portano lontano. Insomma genitori e figli non sono più gli uni continuatori degli altri; non vogliono far parte della stessa catena. I primi non creando figli, i secondi, quando ci sono, allontanandosi dai genitori. Si vedono gli effetti: calo delle nascite per un verso, fuga dei giovani per un altro. La conseguenza è lo spopolamento. Questo lo registrano anche fonti istituzionali come l’Istat. Il fenomeno è fondamentalmente del Sud, categoria geo-antropologica “dannata”. Ma se è vero che non è facile realizzarsi nel Sud, ci sono anche casi comodi e scontati, che vengono rifiutati. Ci sono famiglie che hanno raggiunto un grado di benessere importante, con attività commerciali e industriali ben avviate, create e condotte con spirito weberiano, che, data la strada diversa intrapresa dai figli, sono costrette a chiudere o a vendere. Molti posti di lavoro si perdono così. Molti antichi mestieri spariscono così. Si dice che è normale che uno cerchi condizioni di vita migliori. La migrazione lo dimostra, ad ogni livello. Ma spesso i tanti giovani che se ne vanno e lasciano la famiglia non raggiungono che risultati modesti, inferiori che se fossero rimasti a casa. L’agognato stipendio mensile, facendo l’impiegato, è niente rispetto a quello che l’azienda di famiglia avrebbe potuto garantire loro. Questo sta a dimostrare che non è neppure questione di convenienza, ma di rifiuto culturale. I giovani che se ne vanno lo fanno perché non vogliono fastidi dai genitori che invecchiano. I genitori che non vogliono figli in realtà non vogliono fastidi per crescerli e portarli fino all’età dell’indipendenza dalla famiglia per poi vederseli sparire sul più bello. Il problema che si sta delineando è ben più grave dei soliti banali conflitti generazionali di sempre. Qui, alla base, da una parte e dall’altra, c’è un rifiuto radicale. Di fronte a quanto mostrano oggi i figli, insensibili e irriconoscenti nei confronti della famiglia, i giovani sposi si guardano bene dal mettere al mondo figli ingrati, che proprio quando c’è più bisogno di loro non ci sono, sono altrove, a condurre una vita magari peggiore che se fossero rimasti “a casa”. Sono le conseguenze della frantumazione famigliare. La famiglia non c’è più, sparita e con essa l’etica famigliare, le consuetudini, le tradizioni, i ruoli, la casa. L’ambita casa! La sacra casa! A tanto si è giunti per il progressivo smantellamento di una cultura millenaria follemente aggredita dal modernismo degli anni Sessanta e Settanta. L’ultimo bombardamento la famiglia l’ha ricevuto con l’attacco al patriarcato. Improvvisamente è stato tirato fuori quest’altro pilastro per colpirlo furiosamente in quanto base del tradizionale impianto famigliare. S’incominciò con le coppie di fatto: giovani che hanno preferito mettersi insieme piuttosto che sposarsi regolarmente. Il marito di una volta è diventato il compagno. Lo Stato ha fatto la sua parte legalizzando i mutamenti provenienti dalla società. Un dato costante di queste unioni è la mancanza di figli. Un altro fenomeno che ha intaccato la famiglia è stato la facilitazione del divorzio, che ha interessato un numero sempre crescente di giovani, i cui matrimoni durano a volte pochissimo. Non sembra esserci rimedio. Un’alternativa alla famiglia tradizionale che garantiva una continuità senza soluzione è la cosiddetta famiglia “queer” (la parola significa diverso ma anche ridicolo), così come delineata dalla scrittrice sarda Michela Murgia, una famiglia basata non sui ruoli derivanti dal matrimonio ma sulla spontanea cura. Non più ruoli ma assistenza reciproca. Va da sé che di figli, in un disordine simile, nessuno si sogna di farne; è una “famiglia” dove nessuno ha un ruolo specifico, ma ognuno è “tutto” per l’altro. Per trovare qualcosa di simile nella storia bisogna andare al medioevo, quando singole persone si riunivano in comunità e chiedevano al papa la concessione della regola. Erano i frati, dai quali sono nati gli ordini religiosi. Un nuovo monachesimo ci attende, per di più senza “regola”.

sabato 19 luglio 2025

I mille giorni di Giorgia

In questa metà di luglio, giorno più giorno meno, Giorgia Meloni “celebra” i suoi mille giorni di governo. Spesso noi uomini ci inventiamo le datazioni un po’ per comodità di storici e un po’ per vanità di politici. All’evento la Presidente del Consiglio ha dedicato un’intervista su RaiUno il 17 luglio. Ha detto delle cose ovvie ma non inutili, ha ricordato i punti salienti della sua opera di governo. Fra tutti ha sottolineato il calo di sbarchi di migranti sulle nostre coste, la creazione di un milione di posti di lavoro e l’avvio di numerose riforme, fra cui il premierato e la giustizia. Altri della sua area hanno voluto ricordare un aspetto importante del suo ormai quasi triennio di governo: l’assoluta normalità. Chi temeva derive autoritarie o colpi si stato, manifestazioni di intolleranza e approcci duceschi ha dovuto una volta tanto tacere. Si spera che il silenzio diventi esso stesso normalità, mi riferisco al silenzio su immaginati e temuti slittamenti autoritari. Sarebbe un bel traguardo in questo paese in cui in occasione, l’anno scorso, del ricordo di Matteotti, c’era chi si avventurava in paragoni con la realtà odierna assolutamente capotici per non dire altro. Certo, c’è da capire. Quello della paura del fascismo è una bella carta da giocare nell’eterna partita della propaganda elettorale. Perderla, quella carta, s’impoverisce il mazzo e si è costretti a trovare nell’abilità del gioco le risorse per vincere le partite. Se si finisse di barare, sarebbe una crescita per tutti. Non sono mancati, tuttavia, nel corso di questi mille giorni, tentativi di curvare verso interventi autoritari taluni scontri di manifestanti delle sinistre con le forze dell’ordine. Sono venuti fuori casi di scoperte di eventi privati in cui qualcuno si esibiva in saluti fascisti per sostenere che “questi”, i fu missini, non cambiano mai, sono sempre gli stessi maledetti fascisti che dicono di non avere niente a che fare col fascismo politico. Perfino per il Decreto sicurezza, di recente approvato, si è cercato di scomodare prospettive liberticide, cui non sono stati estranei taluni magistrati. Quel che è stato dirimente nella messa da parte di ogni seria insistenza sul fascismo è stato il grande successo della Meloni in tutto il mondo. Già all’inizio del suo governo si capì che era sbagliato insistere su questo tipo di critica perché era come dire al mondo che l’Italia era un paese fascista. Man mano che la Meloni veniva accolta in tutto il mondo da capi di stato e di governo con simpatia e rispetto sarebbe stato suicidario insistere su dei tasti assolutamenti sconnessi dalla realtà. In un mondo dilaniato da una guerra mondiale, a pezzi la chiamava Francesco, con efferatezze indicibili in Ucraina e in Israele, chi potrebbe dar credito che in Italia al governo ci sono i fascisti? Forse siamo stati noi, in Italia, gli ultimi nel mondo a renderci conto che era infantile gridare all’orco della favola. L’unico motivo di una qualche preoccupazione è stato il caso del Generale Vannacci, il quale peraltro è l’unico nel centrodestra che non si preoccupa di ostentare parole e modi richiamanti il Ventennio. Ma proprio per l’ex Generale della Folgore è più lo sfottò per le sue uscite da parte delle opposizioni che un autentico sdegno, come a rendersi conto che su certe cose insistere è ridicolo. Tutte rose e fiori, allora, i mille giorni di Giorgia? Sarebbe sciocco pensarlo, anche se il dato che rende il governo Meloni saldo in sella non è nel governo è fuori ed è nelle opposizioni che sono ben lontane dal costituire una alternativa possibile e credibile. Si potrebbe dire che la vera forza di Meloni sia la mancanza di un avversario. La temuta deriva meloniana di Calenda, peraltro, e il passaggio di una consigliera comunale romana dal Pd a FdI fanno pensare a quel fenomeno tipicamente italiano dell’andare in soccorso del vincitore, che incomincia a manifestarsi. Certo, non è il caso per nessuno di mettersi a dormire sugli allori. Anche il centrodestra subisce la forza internazionale della Meloni e tacita fin dal nascere ogni polemica ed ogni dissenso. Conosciamo la situazione politica italiana e sappiamo che non ci vuole molto perché cambi. I risultati delle prossime elezioni regionali potrebbero dare uno scossone importante alla maggioranza specialmente se si dovesse perdere il Veneto, come accadde qualche anno fa a Verona, dove con una maggioranza elettorale di centrodestra, spaccato, si finì per regalare al centrosinistra il Comune. Le rogne quotidiane, inoltre, non mancano mai. Nei decorsi mille giorni sono state contenute e nascoste. I giorni che verranno saranno sicuramente più impegnativi, come in genere sono le code.

sabato 5 luglio 2025

Lo storico segue la verità, il politico l'interesse

Se mi si chiedesse di professare pubblicamente l’antifascismo come è stato chiesto più volte e inutilmente a tanti esponenti di Fratelli d’Italia, mi rifiuterei, non già perché io mi consideri fascista, ossia perseguitore di una dittatura, cosa ben lontana dai miei pensieri, ma perché lo ritengo un non senso. Non si può essere contro una cosa che non c’è o che tu non puoi evitare se dovesse concretizzarsi. Come il Filosofo disse: non temo la morte perché quando c’è la morte non ci sono io e quando ci sono io non c’è la morte così per il fascismo: quando c’è il fascismo non c’è libertà e quando c’è libertà non c’è fascismo. Avevo un amico molti anni fa, che era fascista a Taurisano, suo e mio paese natale; liberale a Firenze, dove studiava; comunista a Trento ai tempi di Sociologia. Sì, mi confessò, mi adeguo, non sopporto diversificarmi in qualsiasi ambiente capiti. Pensa, aggiunse, che nel palazzo dove abito sono quasi tutti interisti ed io che da sempre sono juventino mi dico interista per non dispiacere ai più. Questa tendenza oggi si chiama mainstream, una parola inglese che sostituisce banderuola, più modesta ma assai più convincente. Gli risposi che il suo comportamento era tipico del politico, che ovunque si trovi cerca di non dispiacere a nessuno, il suo scopo essendo il consenso degli altri. Non volli scomodare moti caratteriali per non fare il moralista della circostanza. Ma è cosa che può essere giustificata? Dal punto di vista politico sì, dal punto di vista storico no. Chi ha una mentalità di storico sa che qualunque idea, condivisa o meno, può avere avuto nel tempo un periodo di consenso, di condivisione diffusa, può aver costituito la morale comune, indiscussa. Chi non era fascista durante il fascismo era un reprobo e si guardava dal dirsi antifascista; l’esatto opposto oggi. Prendiamo il patriarcato. Questo ha costituito per millenni la base su cui si reggeva la famiglia e ad altra dimensione la società, comunque una qualsiasi aggregazione sociale organizzata. Oggi il patriarcato è una “parolaccia”, da respingere, da condannare, di cui vergognarsi. Così per tantissime altre certezze considerate assolute per lunghi, lunghissimi o brevi periodi. Si pensi all’omosessualità, non moltissimi anni fa condizione da nascondere, da biasimare, oggi si ostenta in festa e il gay-pride si festeggia ogni anno in oceaniche partecipazioni in tutte le grandi città del mondo come, considerando le dovute differenze, una volta le processioni per le feste patronali, a cui partecipava tutto il paese, con le confraternite dietro labari e simboli. Lo storico, che resta freddo e impassibile di fronte a certezze rovesciate, nuovi e vecchi idola, sa che tutto passa e qualche volta ripassa (corsi e ricorsi) e che non indignarsi per un’affermazione o una negazione da gran parte degli altri condivise, non è cinismo, è consapevolezza che così vanno le cose del mondo. Ciò che oggi è condannato, ieri era osannato; ciò che oggi è respinto potrà avere domani un ritorno. Con la sua visione ampia e articolata lo storico, privo di interessi nell’immediato, sembra giustificare tutto, perché tutto non è che il prodotto della storia. Lo storico non condanna, non approva, non respinge; cerca di capire e di spiegare. Per questa sua condizione spesso è biasimato, tacciato di insensibilità quando non addirittura di nascondere dietro lo storicismo sue convinzioni personali che non avrebbe il coraggio di professare apertamente. La condizione dello storico o del politico è un modo di porsi diffuso di fronte alle cose, per cui non si deve essere necessariamente storici o politici di professione per assumere determinate posizioni. In un qualsiasi individuo può essere prevalente la visione storica, in un altro quella politica. Nei confronti del fascismo l’approccio diventa radicale e non si fanno sconti. Politico o storico che uno sia, deve condannarlo senza se e senza ma, come si dice. Chi non lo fa va incontro ad incomprensioni ambientali. Sono di destra e ho nei confronti del fascismo un interesse puramente storicistico, convinto che politicamente esso potrebbe pure ritornare in forme diverse per quei fenomeni tipici della storia, la domanda che mi pongo e che pongo agli altri è: si può parlare di fatti accaduti senza il precipuo interesse di fare propaganda politica in un senso o nell’altro? La mia risposta è decisamente sì, non solo si può, ma si deve. Lo storico, nel cercare la verità storica, può incorrere in un errore involontario; il politico, invece, sa di affermare il falso, consapevolmente, per il proprio interesse.

sabato 28 giugno 2025

Il governo ha il favore degli italiani

Secondo gli ultimi sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli le forze di governo hanno il favore degli italiani. Aumentano significativamente Fratelli d’Italia, Forza Italia e perfino la Lega, mentre calano quelle di opposizione, il Pd e il M5S (Corriere della Sera del 28 giugno 2025). Sembra quasi un rincorrersi a smentire. Ci sono reti televisive e giornali specializzati a dir male del governo e dei suoi rappresentanti. A sentirli, si pensa al disastro. Si distinguono «La 7», «la Repubblica», «Domani», veri organi del partito di opposizione. E, invece, appena possono dire la loro ecco che i cittadini danno risposte diverse. Intendiamoci, è tutto normale. L’opposizione fa il suo mestiere ed è giusto pure che abbia i suoi amplificatori. Ma, vivaddio, non si può a dispetto dei santi continuare a dir male non solo del paradiso ma perfino di un dignitoso purgatorio. Il governo, senza fare mirabilia, tira dignitosamente a campare, d’amore e d’accordo coi tradizionali alleati. A che serve rendersi in-credibili, ovvero non credibili dall’elettorato? Lo dico agli oppositori. È vero che l’astensionismo continua a destare preoccupazione, ma questo non dipende né esclusivamente dal governo né dall’opposizione. È un fenomeno che ha molteplici cause. È ingenuo attribuirsi i voti degli astensionisti. Esistono e contano i voti espressi, gli altri sono fumo peraltro immaginato. Prendiamo l’ultimo tema di dibattito: il riarmo dei paesi Nato. Nel loro vertice di alcuni giorni fa tutti i componenti ad eccezione della Spagna hanno convenuto che entro il 2035, fra dieci anni, dovranno raggiungere il 5% del Pil per le spese militari. Tradotto in soldoni l’Italia avrà da spendere per il cosiddetto riarmo 400mld. Una cifra enorme, che spaventa solo a sentirla. Sicuramente alla scadenza saranno in pochi i paesi che avranno raggiunto il traguardo del 5%. Ciò nonostante hanno detto tutti sì, più che fiduciosi, certi che di qui a dieci anni molta acqua sarà passata sotto i ponti europei e la situazione sarà completamente diversa. Ci sarà una ridefinizione dei termini. L’Italia, come gran parte degli altri paesi, ha detto sì al traguardo per necessità politica. Lo hanno fatto capire tutti che il sì era solo un dire: bene, in questo momento non possiamo che dire sì, e dentro di sé ognuno, poi sa solo Dio a chi dare i guai. Le opposizioni, in Italia, incalzano la premier Meloni a dire dove trova i soldi per simile riarmo. Le chiedono cioè di elencare per filo e per segno da dove prenderà i soldi, dal momento che essa ha promesso che non sottrarrà un solo euro alla spesa sociale. Intanto quelle che passano per spese militari contengono una varietà di spese per la sicurezza. Non solo armi, dunque; ma vari sistemi di difesa, che con pistole e fucili non c’entrano nulla. Sicché sbagliano le opposizioni quando esemplificano la spesa nell’acquisto di armi, contrapponendo queste al miglioramento della sanità pubblica e di altre opere di pace. Vanno avanti per slogan, per facili esemplificazioni. Ipotizzano derive autoritarie senza nessuna giustificazione, così. Siccome in Ungheria Orban è contro le sfilate dei gay-pride e siccome Orban è amico della Meloni, la stessa cosa potrebbe accadere in Italia. Mentre tutti sanno ormai che in Italia i gay-pride sono diventati una consuetudine che non stupisce più nessuno, che possono piacere o non piacere ma nessuno si sogna di vietarli. L’ex saggio Bersani diventa rosso come un peperone quando paventa disastri incostituzionali o anticostituzionali, solo sulla base di un qualche politicamente scorretto. Mai, però, che dica su qualcosa di preciso c’è stata una difformità costituzionale. Tutte le paure si basano sul fatto che Fratelli d’Italia vengono da una cultura politica che non è la consueta dal 1945 in poi. Quel che non piace alla gente di questa opposizione è il modo sommario di porsi contro il governo in ogni cosa, piccola o grande che sia. La gente ha una capacità intuitiva formidabile, arriva subito al cuore delle cose. Si è accorta e non da ora che le opposizioni non solo non riescono a fare unione e a porsi come un’alternativa possibile ma non riescono neppure a trovare delle problematiche credibili, facili e chiare. La gente coglie al volo le difficoltà in cui esse si aggirano, non sanno dire sì o no a problemi come i migranti e l’ordine pubblico. Agitano continuamente le difficoltà della sanità pubblica ma non riescono mai a suggerire qualcosa di concreto, non riescono ad avere un minimo di onestà intellettuale riconoscendo che essa viene da lontano e che non può essere ascritta al governo di Giorgia Meloni.

sabato 21 giugno 2025

Terzo mandato, la legge è legge

Come per tante altre questioni dell’umano pensare e agire anche il cosiddetto terzo mandato per i presidenti delle regioni o per i sindaci in scadenza presenta aspetti controversi. Come dire, ci sono i pro e i contro, a seconda della concezione che si ha della politica. Qui sono chiamati in causa il diritto naturale e il diritto positivo. Chi ha una concezione naturalistica della politica non mette limiti allo scorrere spontaneo di un processo che nasce, cresce e muore (Machiavelli). Chi, invece, ha una concezione contrattualistica ritiene che la politica vada sottoposta a regole limitatrici (Rousseau). Gli statuti e le costituzioni sono gli esempi più vistosi e importanti della normalizzazione della vita politica. La civiltà dei rapporti umani ne ha beneficiato. Dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, allo Stato di giustizia è stato un procedere verso la positività del diritto politico; ad ogni fase ha corrisposto una progressione verso forme sempre più importanti ed evolute. Arrivo al dunque. Da un po’ di tempo in Italia, nell’imminenza delle elezioni regionali, si discetta sul terzo mandato per i presidenti di regione, che si ritiene abbiano ben governato e meritino la conferma. Ma c’è la regola che impedisce il terzo mandato, di cui si fanno forti i partiti per avocare a sé ogni decisione e quei politici scalpitanti che legittimamente ambiscono alla candidatura. È l’eterno aspetto della politica: chi ha il potere cerca di conservarlo e chi non lo ha cerca di conquistarlo. Qui, però, non è solo questione di uomini, ma di partiti e soprattutto di regole. Il caso veneto è un esempio. Il presidente Zaia, ottimo presidente della regione, del partito della Lega, dopo il secondo mandato deve cedere ad altro candidato di un partito della coalizione. I rapporti di forza elettorale di questi partiti nel frattempo si sono rovesciati in base ai sondaggi. Fratelli d’Italia e Forza Italia rivendicano la candidatura. La partitocrazia torna a fare capolino. In questo caso non sono i cittadini elettori a decidere, ma i partiti che hanno voluto la regola limitatrice. Le ragioni della limitazione delle candidature sono tante. La democrazia, quando non è in spontaneo e diretto rapporto col popolo, deve avere delle regole. Le quali sono dirimenti. Ma in politica tutto è discutibile. Quello che conta è vincere le elezioni osservando le leggi. Se queste pongono dei problemi, non potendo essere disattese, potrebbero essere cambiate; ma cambiarle, per rendere possibile quello che prima era impossibile, sarebbe come disattenderle. Non si cambiano le regole nell’urgenza di una congiuntura. Bisognava provvedervi prima, senza l’interesse politico incalzante di una prova elettorale. Regola a parte, ci sono ragioni di opportunità. Ciò che non vieta la legge – diceva una massima latina – lo vieta il pudore. I presidenti uscenti al termine del secondo mandato dovrebbero comportarsi secondo la massima latina “ciò che non vieta la legge lo vieta il pudore”. A Roma chi veniva nominato dittatore in casi di emergenza, scampato il pericolo, restituiva la carica al Senato che gliela aveva conferita. Cincinnato è rimasto l’icona di questo modo di essere e di operare. Lo stesso Augusto, dopo la guerra civile con Antonio, rimise tutti i poteri al Senato, che da parte sua glieli restituì ad abundantiam. Riconoscersi utile ma non indispensabile dovrebbe essere la regola non scritta di ogni politico, un “comandamento”. Un’altra ragione a favore della necessità del ricambio politico è il rischio che la troppa confidenza col potere sfoci in fenomeni corruttivi o in una sorta di assuefazione al potere da non vedere con occhio vigile i cambiamenti della società. Il rinnovamento è importante quanto il buongoverno, in un mondo che cambia in maniera così vertiginosa da mettere tra una generazione e l’altra cambiamenti che una volta si verificavano in un secolo intero. La soluzione di lasciare tutto come sta, ossia col divieto del terzo mandato, è la più giusta, a rischio di andare incontro in alcune regioni a veri e propri sottosopra elettorali. Una soluzione da preferire alle monarcheggianti di Zaia nel Veneto e di De Luca in Campania. Il limite è importante. Averlo fissato al secondo mandato può essere opinabile, ma era necessario rendersene conto prima e non nell’urgenza della prova elettorale. L’osservanza della legge, quali che siano le conseguenze politiche, non può portare che una ventata di aria pulita in un ambiente spesso considerato poco respirabile.

sabato 14 giugno 2025

Fatti e non interpretazioni. Ecco il quotidiano originale!

Leggo sul “Messaggero” di Roma (5 giugno 2025) il cambio di direzione, a distanza di un anno, dal direttore Guido Boffo, il quale aveva sostituito Massimo Martinelli, a quest’ultimo. Un cambio di guardia, che se fosse avvenuto in un’altra qualsiasi azienda pubblica o privata avrebbe quanto meno provocato un dibattito. Nulla! In un giornale importante il cambio di direzione non interessa a nessuno. A parte i convenevoli di circostanza, Martinelli riprende la direzione lasciata un anno fa come se nulla di particolare fosse successo. Ma non è di questo che intendo parlare. Probabilmente le ragioni saranno anche banali, comunque poco significative. La cosa che mi ha colpito nell’editoriale del nuovo-vecchio direttore è l’affermazione: “Riporteremo i fatti, senza la pretesa di darne una interpretazione”. Ho trasalito. Ma come, non si è sempre detto che un buon giornalista separa i fatti dall’interpretazione? Ed ora si mena come vanto il riporto dei fatti e basta? Ma andando avanti nell’articolo si scoprono altre curiosità. Ad un certo punto Martinelli dice: “Faremo un giornale originale, perché inseguire il mainstream, ricalcare la stessa formula di informazione utilizzata dagli altri quotidiani, può diventare un alibi davanti a chi deve valutare il nostro lavoro, cioè il lettore. E disabitua le menti a fare quel lavoro nobile del giornalista che è la ricerca della notizia inedita e la capacità di ideare un servizio di cronaca in grado di scuotere le coscienze per raggiungere un obiettivo più alto rispetto al notiziario dei fatti del giorno”. Bene, anzi benissimo per la “notizia inedita”, ma come è possibile “scuotere le coscienze” limitandosi a raccontare i fatti bandendo ogni interpretazione? Martinelli poi ammette senza dirlo che “per raggiungere un obiettivo più alto rispetto al notiziario dei fatti del giorno” è necessario andare oltre i fatti, dai quali bisogna pur partire. Appunto, “un obiettivo più alto”, che non può essere che oltre il fatto! La lettura dell’editoriale di Martinelli ha avuto un effetto personale. Sono un docente di Italiano, Latino e Storia nei Licei e negli Istituti Superiori. Parlo, dunque, con deformazione professionale. Per me un fatto è come un testo, va sottoposto ad analisi critica, a commento, a interpretazione, altrimenti serve a ben poco, si tratti di un fatto storico o di un fatto letterario. Tanto più oggi in cui i fatti riportati da un quotidiano il lettore li conosce dalla sera prima. Come si può proporre il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” del Leopardi senza analisi, commento e interpretazione? Come proporre ai lettori il referendum senza analisi, commento e interpretazione? Domande retoriche, perché la risposta è scontata: non si può! Del resto è così ovvio che le interpretazioni non stanno in piedi senza il fatto che viene di pensare ad un vestito senza il corpo dell’indossatore dentro. Per come sono evoluti mezzi e tecniche dell’informazione i quotidiani dovrebbero somigliare sempre più ai settimanali o ai mensili; e difatti in un certo senso lo sono. Al fatto si accenna nella sua essenzialità, il resto è commento e interpretazione. Certo gli approcci devono essere onesti, non possono diventare aggressioni, nascondere per non far sapere, esagerare per colpire gli avversari, come capita di vedere in alcuni quotidiani che si propongono sempre più di parte. A questi evidentemente Martinelli faceva riferimento. In Italia i quotidiani sono variamente rispettosi del lettore e della persona in generale. I lettori del “Fatto Quotidiano” non sono i lettori del “Messaggero”. Non si tratta di cercare l’originalità, come dice Martinelli, ma di associarsi ad un modello anziché ad un altro. Posso dire da incallito lettore di quotidiani che non trovo mai in essi una notizia che già non l’abbia appresa almeno il giorno prima dalla televisione e da internet. Poi ci sono giornalisti onesti e giornalisti disonesti che hanno coi fatti e con la verità dei fatti un approccio diverso, in cui la qualità la fa la distinzione chiara tra fatto e interpretazione. Ma un quotidiano esclusivamente notiziario, tutto fatti e niente commenti non esiste, non si capisce perché dovrebbe esistere. Viene il sospetto, che non è una parolaccia, che dietro tante belle parole sulla notizia, la verità, l’originalità, lo scuotimento delle coscienze, si nasconda l’eterno vizio del pavone: nessuno ha i colori delle mie penne! Non che non sia normale, ma per questo basta esibirle le penne e il resto va da sé.

sabato 7 giugno 2025

Col decreto sicurezza stiamo più sicuri o no?

Il Parlamento ha approvato il decreto sicurezza che prevede nuovi tipi di reato e inasprito le pene. Le opposizioni hanno dato battaglia e…spettacolo, coi parlamentari sdraiati per terra sotto i banchi del governo. Da una parte le promesse del governo che d’ora in poi gli italiani saranno più protetti, dall’altra le opposizioni che hanno denunciato provvedimenti da Stato autoritario. Evidentemente c’è un esagerato ottimismo da una parte e un esagerato pessimismo dall’altra. Partiamo da quest’ultima. È veramente uno Stato autoritario quello che si provvede di strumenti giuridici per far vivere più al sicuro i suoi cittadini più esposti? Tutto è relativo. Le leggi possono essere applicate cum grano salis, in maniera equilibrata, e possono essere, in determinati momenti, applicate con severità. Dipende anche dalle situazioni. Ci sono malattie che si possono curare con la medicina, altre con la chirurgia; alcune con dei palliativi, altre con dosi massicce di farmaci. Non dimentichiamo inoltre che ad applicarle le leggi sono i giudici, i quali, nella loro libertà, possono anche svuotare una legge della sua forza. Recentemente i giudici romani hanno assolto i responsabili di aver sporcato con vernice nera la famosa Barcaccia perché in fondo non l’avevano poi tanto sporcata, non l’avevano resa tanto scura. E di queste sentenze ne sentiamo che ne sentiamo! In questi ultimi tempi nelle città si sono aggravati certi fenomeni di malavita: occupazioni abusive di case, borseggiatrici nei luoghi pubblici, aggressioni personali di cittadini, raggiri di indifese anziane signore, a cui i malviventi sottraggono soldi e oggetti preziosi con l’inganno e la paura, diffusa manovalanza di delinquenti e spacciatori, risse, accoltellamenti, invivibilità delle città specialmente dal calar della sera al giorno successivo, interi rioni invivibili. Questo lo si vede nei dibattiti televisivi, che sono le uniche possibilità per far conoscere queste realtà altrimenti rimarrebbero sconosciute ai più. Il governo ha risposto, come è suo compito, con un provvedimento ad hoc. Le opposizioni hanno sostenuto che già le leggi c’erano e che non c’era alcun bisogno di farne altre. Altre, che stando alla loro denuncia, potrebbero essere pericolose ove ci fosse un governo che quelle leggi applicasse con rigore, anche persecutorio. Insomma, per le opposizioni il decreto sicurezza non serve per rendere più sicura la vita ai cittadini, ma è uno strumento nelle mani del governo che potrebbe usarlo, senza violare la legge, contro normali forme ed espressioni di democrazia. Il decreto prevede anche pene severe per quei reati che attengono manifestazioni non autorizzate, occupazione di locali pubblici, interruzione di pubblici servizi. Fenomeni questi che in genere hanno per protagonisti giovani e giovanissimi. Si pensi all’occupazione delle scuole o ad alcune marce per protesta o per solidarietà, che spesso finiscono col degenerare. La risposta alle opposizioni che ancora una volta hanno gridato “al lupo! al lupo!” è che un governo deve regolarsi a seconda delle esigenze dei cittadini. Il ragionamento dei partiti di maggioranza è che la gente li ha votati perché vuole da loro mantenere le promesse fatte. Fra queste promesse c’erano sicuramente ordine e sicurezza. Il governo non ha fatto altro che rispondere alle aspettative della gente che lo ha votato. E veniamo all’eccessivo ottimismo del governo. Davvero queste leggi risolveranno il problema sicurezza? Non bastavano quelle che c’erano? In Italia spesso invece di applicare una legge esistente si sceglie di farne una nuova, come se il problema fosse della legge che non c’era. In un certo senso le opposizioni non hanno torto quando sostengono che con questo decreto non cambierà niente sul piano pratico. In realtà in Italia da sempre non sono mai mancate le leggi, sono mancati quelli che le applicano con scienza e coscienza. Le leggi son – diceva Dante Alighieri ai suoi tempi – ma chi pon mano ad esse? L’aspetto curioso è che su questo convengono sia la maggioranza che l’opposizione, nel senso che sono tutti convinti che i giudici che dovrebbero applicarle le leggi, le leggono prima di tutto a modo loro e poi le applicano secondo criteri politici, di opportunità, sicché alla fine tutto resta come era. Le manzoniane grida poco o nulla servono, specialmente in un paese come l’Italia, dove tutto si stempera nel nulla. Vedremo quanto prima se hanno avuto torto gli ottimisti del governo o i pessimisti dell’opposizione. Forse, più che ottimisti o pessimisti, occorre essere semplicemente scettici.

sabato 31 maggio 2025

Referendum, lo scontro è sul governo

L’art. 75 della Costituzione, come è arcinoto, prevede il referendum abrogativo di talune leggi o di alcuni loro punti. Perché l’esito sia valido è necessario che i votanti siano il 50% più uno. Spesso i sostenitori del NO hanno speculato sugli astensionisti per invalidare la chiamata referendaria, i quali sono sempre nell’ordine del 40-50% degli elettori. Almeno, stando ai risultati di questi ultimi anni. Il referendum così ha tralignato dal merito dei quesiti e di ciò che si intendeva abrogare nel referendum stesso: se invalidarlo o meno astenendosi e suggerendo di astenersi. Questo è accaduto spesse volte in Italia, con esiti a volte scontati, a volte sorprendenti. Famoso l’andate a mare di Craxi e l’esito smentito dai votanti. Quando si crea un certo agonismo tra le parti i protagonisti possono aumentare per una sorta di sfida, che ognuna delle due vuole vincere. Anche per il referendum dell’8 giugno sta accadendo la stessa cosa. Il referendum su alcune questioni del lavoro e della cittadinanza italiana sta diventando un referendum fra chi è determinato a votare, come tutti i partiti di opposizione, a prescindere da ogni altra considerazione, e chi non vota e invita a non votare come tutti i partiti della maggioranza, tranne Noi Moderati, che sono una piccola minoranza. Per la cronaca, essi sono in tutti i quesiti per il NO. L’esito, quale che sia, è già un referendum sul governo; in quanto tale, è sempre un rischio. L’esito, infatti, se pure sarà invalidante – e non è detto che lo sia – resta una risposta al governo, con conseguenze che si possono immaginare. Le opposizioni avranno ragione di chiedere le dimissioni di Meloni e della sua compagnia cantante. Avete detto agli italiani di non votare, hanno votato, dunque c’è una maggioranza nel Paese che non si riconosce nel governo. In politica non sempre, ma qualche volta due e due fa quattro. Perché questo regalo della maggioranza governativa alle opposizioni? Perché tanta ingenuità da parte di politici che per età ed esperienze dovrebbero sapere che in politica l’insidia è nei dettagli, nelle cose piccole, in quelle scontate, negli imprevisti? Lasciamo stare gli aspetti etici di certe uscite, come quella del Sen. Ignazio La Russa, Presidente del Senato, che dimostrano l’inadeguatezza del personaggio a ricoprire una carica così importante. Ha ripetuto più volte che lui non andrà a votare e ha invitato a non andare a votare. È vero, siamo in democrazia; ma le “libertà” di dire la prima cosa che passa per la mente sono soggette a regole da rispettare. La seconda carica dello Stato non può comportarsi come un parlamentare qualsiasi, ma deve assoggettare il suo comportamento a quello che la carica impone. Ma c’è bisogno di una legge scritta per comportarsi come è nella logica delle situazioni? Nei confronti del referendum era necessario avere atteggiamenti soft, lasciare che i cittadini si regolassero sulla base dei comportamenti dei loro rappresentanti e dei propri ragionamenti. Calcoli e speculazioni non sono mai consigliabili, specialmente quando lo scontro politico è particolarmente pretestuoso e a volte fondato sul nulla. In Italia vediamo quotidianamente che perfino su una battuta, una parola si discute per settimane. Insistere a dire non andate a votare è un errore madornale, che non resterà senza conseguenze. Ciò detto, fuori dal vociare confuso e diffuso di questi giorni, votare al referendum non è come votare alle elezioni. Il referendum è l’iniziativa di una parte politica che “impone” agli altri di pronunciarsi su determinate questioni. Se votare o non votare è importante per la validità della prova, è legittimo che uno decida di non votare e più che nel merito dei quesiti si pronuncia sulla validità del referendum stesso. È una questione che non dovrebbe creare il rumore che in genere crea per tutti gli spropositi che si dicono da una parte e dall’altra. Ma la parte più interessata, dal punto di vista politico, a non creare disordini o a non radicalizzare la questione è in questo caso il governo. Ha tutto da perdere dalla radicalizzazione di uno scontro “inventato”. Nelle elezioni politiche, invece, votare è un diritto ma soprattutto un dovere, anche se non c’è legge alcuna che punisca in qualche modo chi si rifiuta di andare a votare. È solo una questione di educazione civica, di sensibilità politica, di doverosa partecipazione alla vita della Nazione, di cui si è parte. È una conquista che i popoli hanno meritato dopo secoli e secoli di lotte e di aspirazioni. Considerare il voto come qualcosa di inutile è come privarsi di una parte di sé.

domenica 25 maggio 2025

110 anni fa l'Italia in guerra contro l'Austria Ungheria

Il 24 maggio 1915 l’Italia, 110 anni fa, dichiarando guerra all’Austria-Ungheria, entrò nella Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra. Una data importante per la storia del nostro Paese, che purtroppo scivola sempre più nell’indifferenza, perché non si usa più celebrare le guerre. Si spera così di esorcizzarle. Fino a non moltissimi anni fa il 24 maggio era festa nazionale e la Leggenda del Piave veniva cantata quasi fosse l’Inno nazionale o, come oggi si dice il Canto degli Italiani! Oggi nessun cenno all’anniversario. Quella guerra, nei confronti della quale il Paese si divise, per la prima volta a livello nazionale da che era stato unificato, tra interventisti e neutralisti, fu per l’Italia il compimento del Risorgimento, la continuazione delle Guerre di Indipendenza. Non a caso da noi italiani fu anche detta la IV Guerra di Indipendenza. Ma non fu una partecipazione scontata, come si potrebbe pensare. Noi eravamo alleati dell’Austria fin dal 1882 con la Triplice Alleanza, un patto peraltro più volte rinnovato. Caso mai avremmo dovuto partecipare al suo fianco o assumere una posizione per favorirla o non danneggiarla. Invece, dopo pensamenti e ripensamenti, valutati i pro e i contri di tutte le ipotesi, compresa quella di non intervenire in cambio di alcune concessioni austriache, decidemmo di compiere la scelta più giusta, quella che ci legava all’idea risorgimentale. L’unica, se vogliamo. Dovevamo portare a compimento la causa dei nostri grandi, da Mazzini a Garibaldi, da Cavour a Vittorio Emanuele II, dagli intellettuali impegnati nei loro studi e pensieri agli uomini di azione che erano caduti nei vari moti susseguitisi in Italia fin dall’indomani del Congresso di Vienna del 1815. In quella sede altri decisero che l’Italia doveva rimanere divisa in più stati e presidiata dalla Santa Alleanza perché nulla mutasse, per impedire insomma che si unificasse, come era nel destino di una delle più grandi nazioni d’Europa. Le guerre di indipendenza erano state fatte contro l’Austria. Se si voleva seguire la strada risorgimentale bisognava perciò riprendere le armi contro l’Austria. Diciamo che il calcolo politico poteva suggerire di metterci d’accordo con l’Austria, ma la passione degli italiani era fondamentalmente antiaustriaca. Difficile dire quanto contò lo spirito interventista contro l’Austria nella scelta finale, sta di fatto che il governo preferì seguire lo spontaneismo nazionalista degli interventisti che il voto del Parlamento che si era espresso contro la guerra. I cittadini queste cose dovrebbero saperle, dovrebbero seguire le vicende della propria nazione senza enfasi e risentimenti. Rispettare un anniversario vuol dire anche questo. Quando si tratta di una guerra poi l’attenzione deve essere massima perché essa è sempre un’immane tragedia per tutti i partecipanti. Il papa Benedetto XV la definì un’ “inutile strage”, cercò di mediare con un documento che non servì a nulla. Alla fine ci furono paesi vincitori, fra cui noi, e paesi sconfitti; ma tutti, gli uni e gli altri, erano al collasso, in preda a gravi rivolgimenti politici, sociali, economici. Il breve tratto di anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, appena una ventina, dimostra come i problemi dell’Europa non furono risolti dal conflitto. Ricordare una guerra, vittoriosa o rovinosa che sia stata, è importante, non tanto per il fatto in sé, certo non per esaltare una vicenda comunque tragica, ma per seguire la vita della propria nazione con consapevolezza civica, per apprezzare quanto è importante ciò che i nostri padri hanno fatto e poi lasciato a noi per gestirne le responsabilità e i frutti. Si può essere d’accordo o meno con la decisione di entrare in guerra, ma una volta che la scelta è compiuta e la guerra finita occorre trarre il massimo del bene nazionale dai sacrifici e dalle sofferenze patiti. Coltivarne la memoria è importante per capire e superare i problemi che si pongono nella convivenza delle popolazioni. Per alcuni anni, successivi alla guerra, la convivenza delle popolazioni di frontiera in Alto Adige è stata problematica per via del fatto che in quella regione la parte che era austriaca si ritrovò dopo la guerra ad essere italiana. Lo stesso Alto Adige gli austriaci lo chiamano Sud Tirol. È stato grazie agli accordi De Gasperi-Gruber del 1946, successivi alla II Guerra Mondiale, che quella convivenza oggi è un modello da indicare a tutte quelle popolazioni nel mondo che vivono lo stesso problema. Qualche giorno fa una sindaca neoeletta in provincia di Bolzano si sfilò la fascia tricolore, dimostrando di non amare quel simbolo di appartenenza, sentendosi evidentemente austriaca nell’anima. Capiamo da dove viene quel gesto, non capiamo perché lo abbia compiuto, dal momento che certi comportamenti non hanno più ragione di esistere. Si può essere buoni austriaci nell’intimo e buoni cittadini italiani per appartenenza nazionale. Siamo tutti figli della storia, ci è gradito o meno.

sabato 17 maggio 2025

2027. Morte e rinascita della democrazia in Italia

Il giornalista scrittore Sergio Rizzo, che qualche anno fa scrisse in collaborazione con Gian Antonio Stella «La casta”, in un suo romanzo distopico «2027. Fuga dalla democrazia», ha descritto come possa andare a finire il regime della “Meloni” e dei “suoi”, mai chiamati col loro nome ovviamente. Tutti innominati ma tutti riconoscibili, alcuni con nomi evocativi. La fine del regime “meloniano” è seguita dalla rinascita democratica, questa volta non per opera dei comitati di liberazione nazionale ma di un maresciallo dei carabinieri e di un comandante di marina, i quali disobbediscono agli ordini del “dittatore” ministro degli interni ad interim, dando inizio alla liberazione. L’autore immagina che alle elezioni del 2027 “nessuno” va a votare, rendendo impossibile la formazione di un governo e di un parlamento. Seguono attentati, con morti e feriti. Il Presidente del Consiglio se la squaglia “col malloppo” e il “successore”, suo vice, instaura la dittatura. Sorprendentemente, ma aggiungerei inspiegabilmente, nella fiction di Rizzo, mancano gli abituali difensori della democrazia, di centrosinistra e di centrodestra; come se fossero morti prima della democrazia stessa. Rizzo è un giornalista di sinistra, dal volto bonario; ma deve essere un tantino sfiduciato. Di fronte alle difficoltà della sua parte politica di trovare soluzioni possibili, dà sfogo ad un intimo riposto. Per lui la democrazia è di sinistra o non è; non esiste una democrazia di destra, è una contraddizione in termini. E allora che va ad immaginarsi? Qualcosa di radicale: nessuno va a votare per eleggere il capo del governo secondo la riforma approvata del premierato, una sorta di ammutinamento degli elettori di destra e di sinistra insieme, allo scopo di gettare il paese nell’ingovernabilità e nel caos. Nel frattempo fa strame di persone rispettabilissime fino a prova contraria. Il Presidente del Consiglio sparito ha trovato rifugio in Vaticano, mentre è accusato di aver ricevuto soldi dal governo ucraino per sostenere le sue ragioni contro la Russia. Il governo è un’accozzaglia di parenti del capo, una specie di banda tribale che ha occupato tutti i posti di potere, grandi, medi e piccoli. Rizzo sembra così sintetizzare tutte le pulsioni irrazionali del qualunquismo. Riporta in esergo quel che si legge su un muro di Bologna: «Tutti promettono, nessuno mantiene, vota nessuno». Un qualunquismo che dimostra che sul tema neppure a sinistra scherzano quando ci si mettono. Se gli italiani ancora oggi pensano che in democrazia si possa governare col “detto e fatto” tipico delle dittature vuol dire che la democrazia dei partiti ha fallito su entrambi i fronti, quello dell’amministrare la cosa pubblica e quello di educare le masse. Alla fine tutto si conclude con un ammutinamento, che mette in crisi definitivamente il regime del ministro ad interim, “Salvini”, mai nominato. Questa volta il comandante della Diciotti disobbedisce e invece di portare al “lager” albanese i migranti, li porta a Pozzallo, dove un maresciallo dei carabinieri andato lì ad arrestarlo per aver disobbedito ad un ordine si rifiuta, e così tutto finisce tra pentiti manzoniani e personaggi deamicisiani. Il Presidente del Consiglio accusato ed estromesso risulta innocente ma pentito si ritira in un convento; il ministro ad interim finisce per rifugiarsi in Russia. E tutta l’Italia, ritrovata la libertà, è in festa: si rioccupano università, si fanno sfilate nelle vie delle maggiori città, tutto torna come prima. Non mancano fatti di cuore, amori omosessuali troncati tragicamente, episodi deamicisiani e soprattutto una lezione: i regimi si abbattono disobbedendo. La facilità con cui la democrazia italiana, nella fiction di Rizzo, cade e risorge rientra nell’idea che l’autore ha del governo “Meloni”, un castello di carta, dove basta sfilarne una di sotto e tutto crolla. È di tutta evidenza che Rizzo con la sua storia non vuole convincere nessuno, sarebbe troppo ingenuo se questo fosse il suo intento. Il suo romanzo rientra in un genere, quello della distopia-utopia. Tutto avviene non secondo regole e convenzioni ma tutto si muove secondo i desiderata dell’autore. Una storia non vera e non verosimile. Una sorta di divertissement imbottito di giudizi tanto trancianti quanto gratuiti, che raccoglie i luoghi comuni che sul governo Meloni si vanno formulando dall’indomani dell’ottobre del 2022, data di nascita di quel governo. Viene di pensare che il suo scopo è di fare esercizio di propaganda, di opposizione a un governo e a una classe politica che all’autore danno l’impressione di essere giunti alla fine.

sabato 10 maggio 2025

Leone XIV, un papa deciso con modi convincenti

Chissà cosa passa nella mente di un papa, appena eletto, nel momento in cui deve darsi un nome che lo consegni alla storia! Forse ogni cardinale pensa a questo, fin da quando viene nominato tale, ed entra in conclave col suo bel nome scelto; o forse ancora da prima, da quando è nominato vescovo o addirittura da quando è sacerdote o decide di entrare in seminario e farsi prete. Chissà! Il cardinale statunitense Robert Francis Prevost, eletto papa giovedì pomeriggio, 8 maggio 2025, si è imposto il nome di Leone XIV. Un nome molto impegnativo, se pensiamo ad alcuni precedenti; fin dal primo. Leone I (390 c – 461), detto Magno, convinse Attila, re degli Unni, il flagello di Dio, a risparmiare Roma. Gli andò incontro e con la “forza” della croce “vinse” il più barbaro dei barbari. Un’impresa che ancora oggi ha del miracoloso se pensiamo che Attila era noto perché da dove passava lui non cresceva più erba, tanto era rovinoso e distruttivo. Leone III (750-816) incoronò imperatore Carlo Magno la notte di Natale dell’800 dopo averlo chiamato in aiuto per farsi liberare dai Longobardi. Con quell’incoronazione, che sembrava più un ringraziamento, creò un precedente che i suoi successori avrebbero utilizzato per stabilire il primato del papa sull’imperatore. Un precedente che di fatto mise più di un imperatore nei guai, perché voleva dire che quello era tale in quanto legittimato dal papa e che dal papa dipendeva per essere riconosciuto tale. Bastava una scomunica per fargli perdere la fedeltà dei suoi vassalli, fra cui ve n’erano che altro non aspettavano per rivoltarglisi contro. Gran parte del medioevo fu caratterizzato dalle lotte tra papato e impero, sul primato dell’uno o dell’altro. Leone X (1475-1521), della famiglia dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, è rimasto il papa del Rinascimento, delle grandi opere, dei grandi artisti, di cui l’Italia è famosa nel mondo. Leone XIII (1810-1903) è il papa della Rerum Novarum (1891), l’enciclica della dottrina sociale della chiesa. Un documento ancor oggi validissimo nelle sue linee di fondo, elaborato alla fine dell’Ottocento in un periodo in cui il socialismo materialista ed ateo sembrava essere la sola proposta per la soluzione dei problemi del lavoro e della società. Contro la lotta di classe predicava la collaborazione tra le classi. È su quel documento che in Italia si è basata la componente politica cattolica della Democrazia Cristiana di don Romolo Murri, del Partito Popolare di don Luigi Sturzo e ancora della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, giunta fino a noi con le sigle botaniche della Margherita e dell’Ulivo. Non che in materia la chiesa sia rimasta ferma all’enciclica di Leone XIII; dopo ci sono state le encicliche sul mondo del lavoro di Pio XI (Quadragesimo Anno), di Paolo VI (Populorum Progressio) e di Giovanni Paolo II (Laborem Exercens). E – chissà! – che il “nuovo” Leone non abbia in mente di tornare sulla materia per gli opportuni aggiornamenti, di cui oggi c’è gran bisogno. I problemi che attendono questo papa sono enormi, caratterizzati da apparenti insanabilità. Si spera che sia il papa più indicato. Stando ai suoi trascorsi, egli sembra una persona decisa, ma nello stesso tempo capace di maniere tali da conciliare gli opposti. Ci sono questioni aperte da anni, che papa Francesco ha cercato più che di risolvere in radice di andare avanti con occasionali riconoscimenti, alla buona, contro cui si sono scagliati i difensori dell’ortodossia dottrinale (omosessuali, sacramenti ai divorziati e risposati, diaconato femminile, eutanasia, nuove famiglie). Oggi più che mai è opportuno che il papa torni ad essere il successore di Pietro, torni ad interpretare il ruolo che gli compete per mandato divino, a rappresentare tutta la chiesa, ovvero tutta l’umanità. Pace nel mondo, riconoscimento di diritti tradizionalmente negati dalla chiesa, conflitti di lavoro, ingiustizie sociali sono all’ordine del giorno. Era proprio necessaria una figura di pontefice che riuscisse a gettare ponti fra sponde che sembrano molto lontane, a sanare dissidi incominciando a far accettare alle parti di rinunciare a qualcuna delle loro pretese. Il rapporto col suo predecessore Francesco deve essere nient’altro che una spontanea esigenza argomentativa, un pour parler, fuori da ogni tentativo di creare facili retoriche da papi buoni e papi cattivi. È stato continuamente ripetuto durante la vacanza papale e si aspettava l’elezione del nuovo papa che non si poteva tornare indietro dalle riforme di Francesco. Fra queste una sorta si democratizzazione della chiesa, ad incomiciare dai vertici fino alle diocesi, con periodici incontri sinodali per fare il punto sui programmi e sui progetti. Una questione sulla quale, però, lo stesso papa Francesco non ha insistito più di tanto. Un papato, insomma, quello di Leone XIV, che sembra un’autentica sfida per i prossimi anni a venire.

lunedì 5 maggio 2025

Francesco, un papa uno e bino

È morto il 21 aprile, natale di Roma. Un caso senza nessuna importanza, di cui nessuno se n’è accorto. Una volta il Natale di Roma era festa nazionale, ma evidentemente sic transit gloria mundi per tutto. Francesco era il papa della gente; e la gente gli è stata vicina fino all’ultimo, accompagnandolo nel suo ultimo percorso verso la Basilica di Santa Maria Maggiore, dove egli in vita si recava spesso e dove ha voluto essere sepolto. Ha voluto dimostrare fino all’ultimo la sua contrarietà al potere e ai suoi simboli. Il Palazzo Apostolico e San Pietro sono i luoghi del massimo potere della chiesa, dai quali si è tenuto lontano nei suoi dodici anni di pontificato. La sua vita è stata sempre sobria e ai limiti delle sacre convenzioni. Viaggiava in “500” e andava spesso a fare compere, presentandosi solo, a sorpresa, nei negozi. A cadavere di Francesco ancora caldo si è disputato se fosse stato di destra o di sinistra, conservatore o rivoluzionario. Le tifoserie non faticavano a trovare ragioni per sostenere le proprie tesi. Francesco era semplicemente un papa e in quanto tale non poteva che essere ecumenico; e dunque il papa dei poveri e dei ricchi, dei sapienti e degli ignoranti, dei sani e dei malati, dei belli e dei brutti, dei liberi e dei carcerati, della dottrina e della pastoralità. Così, per esemplificare. Bergoglio, cioè l’essenza del suo essere, cioè l’uomo, era un’altra cosa. Non ci sono dubbi. Stava coi poveri, con gli ultimi, con i bisognosi. Amava la pace e la predicava con mistica angosciante convinzione. Amava la misericordia e la esercitava con tutto se stesso. Amava i migranti e li voleva accolti a prescindere da quantità e condizioni. Il Vangelo per lui non era un libro di testo, scolasticamente inteso, e dunque da cambiare col cambiamento della realtà: se era stato possibile risolvere il problema del vino alle nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani e dei pesci, è possibile anche accogliere tutti i migranti in arrivo. Un papa, nell’esercizio del suo “mandato”, può anche fare un calcolo e dire quello che ad un papa conviene dire; ma l’uomo no, dice quello che sente. Spesso il papa è stato più Bergoglio che Francesco, anche se la sua scelta di chiamarsi come il poverello d’Assisi sembrava quasi saldare le due essenze. Bergoglio ha detto quello che ha sentito di dire. Francesco qualche volta ha dovuto dire quel che al papa conveniva dire. Raramente Francesco ha chiesto ai fedeli o ai potenti della terra di fare qualcosa in nome di Dio, come un papa dovrebbe fare, lo ha chiesto sempre per favore, come fosse qualcosa di personale. Lo abbiamo sentito esprimersi in maniera quasi blasfema. Che faccio io se uno mi insulta la madre? Gli do un pugno. Chi sono io a giudicare gli omosessuali? Che fa uno se deve vendere una sua proprietà? Cerca di guadagnare il massimo possibile, a proposito della casa londinese. Era Bergoglio non Francesco a dire ad Israele che stava compiendo un genocidio a danno dei palestinesi. Ma Francesco è stato anche il papa che ha svuotato il conclave e lo ha riempito di cardinali provenienti dalle più disparate contrade della terra, mentre ha lasciato senza cardinali diocesi grandi e importanti. Si pensi alla diocesi di Milano, il cui arcivescovo non è stato fatto cardinale. Una scelta rivoluzionaria perché chiaramente tendente ad assicurare alla chiesa un altro Francesco o qualcuno di simile. rancesco è stato anche conservatore: l’aborto è un assassinio, la famiglia si compone di un padre e di una madre, maschio e femmina. Affermazioni forti, che non si prestano ad equivoci o a qualche eccezione e che risolvono tutte le problematiche aperte dalla cultura Woke. Qui è molto difficile e rischioso dire fino a che punto ha prevalso in lui Francesco o Bergoglio, probabilmente le due componenti si sono compenetrate. È indubbio che egli abbia voluto iniziare un processo, che è rivoluzionario nella misura in cui la situazione esistente è di forte squilibrio a vantaggio delle zone più ricche della Terra. Francesco ha inteso avviare un processo di livellamento generale, che potrebbe però ingenerare guasti di diversa opposta natura. In questo senso la sua è stata una sfida che solo i tempi che verranno potranno dire se l’ha vinta o meno. Ha vinto sicuramente la sua ultima sfida: morire da papa, stare fino all’ultimo in attività pastorale, vicino alla gente. Mentre, in seguito alla sua malattia, gli osservatori ipotizzavano rinunce e i medici gli consigliavano due mesi almeno di riposo dopo averlo dimesso dall’ospedale, lui ha voluto esserci, con tutto il suo Francesco e tutto il suo Bergoglio, fino alla fine.

sabato 5 aprile 2025

Femminicidi, occorre una risposta forte dello Stato

Le continue uccisioni di giovani donne, oltreché gettare nel dolore e nell’angoscia i famigliari e gli amici, turbano la società, preoccupano lo Stato. Quante famiglie non hanno le figliuole fuori di casa, a lavorare o a studiare? E possono vivere nella preoccupazione che da un momento all’altro arrivino in casa i Carabinieri ad annunciare la disgrazia come in tempo di guerra annunciavano che il congiunto era caduto in battaglia? No, assolutamente. Lo Stato non può comportarsi come un comune cittadino che su educazione e rieducazione di chi delinque è un radicale e ritiene che nessuno debba essere privato mai di un’altra chance nella vita: nessuno tocchi Caino! Lo Stato deve guardare la realtà e se essa dice che per certi soggetti la rieducazione non risolve il problema ma anzi lo aggrava deve prendere atto e agire di conseguenza. La risposta a chi uccide è l’ergastolo senza sconto alcuno. Chi uccide deve sapere che per lui è finita. La punizione esemplare non serve tanto per far soffrire l’assassino in una logica del taglione ma per prevenire che altri compiano lo stesso crimine nella certezza di sbrigarsela con qualche annetto “rieducativo” di carcere. Per chi uccide senza una ragione non ci deve essere chance alcuna, deve finire. La pena deve andare oltre la colpa. Lo Stato non ti toglie la vita ma ti condanna a riflettere finchè campi su cosa significhi privare uno della vita. Non conta che tu viva o meno, conta che tu non viva più per la società. Gli altri, quelli che sarebbero potuti essere i tuoi emuli, si guarderanno bene dal compiere atti di violenza contro una giovane donna che ha l’unica colpa di voler essere libera di mettersi con chi vuole. Ci sono omicidi, e il femminicidio è fra questi, che debordano dal caso singolo e diventano alimentazione di un fenomeno; perciò, nel condannarli, non si deve tenere conto del caso in sé ma del fenomeno che ne segue. Il fatto stesso che si sia fatto ricorso ad un termine specifico per indicare l’uccisione delle donne è prova che non di casi sporadici si tratta ma di un fenomeno. Nomina sunt consequentia rerum diceva Aristotele. L’educazione è sì un dovere di chi per diritto naturale (genitori) e per diritto positivo (Stato) ne è responsabile, ma è anche un premio. I genitori che educano i figli danno loro un premio, del quale essi devono essere fieri e riconoscenti. Lo Stato che educa un cittadino gli dà parimenti un premio, perché lo rende migliore di quel che sarebbe senza educazione. Ma se l’individuo non sa che farsene del premio ricevuto e delinque contro persone indifese, per quale ragione deve essere rieducato, ovvero ripremiato? Non ci sono ragioni per rieducare o ripremiare. Esse appartengono ad ideologie che si sono rivelate deleterie per il singolo e per la società. Sempre più spesso in ogni parte del mondo ci si chiede perché avanzano le destre. Se lo chiedono in tanti, ma nessuno mai si dà una risposta, quasi che abbiano paura di dover ammettere di aver sbagliato a privilegiare l’individuo a scapito della società, il particolare per il generale, il caso per il fenomeno. Le destre sono più in sintonia con la gente, vogliono mettere fine a ideologie che invece di migliorare la società l’hanno peggiorata, hanno prodotto le peggiori storture umane, prima fra tutte la distruzione della famiglia; e spingono imperterrite sulla stessa strada incuranti del danno che si lasciano dietro. In nome di simili ideologie si ritiene che è da preferire l’indulgenza di un delinquente oggi che prevenire l’uccisione di altre donne domani. Il che è aberrante. Impunire un assassino è come mettere il coltello in mano ad altri assassini. La frequenza con cui vengono uccise tante ragazze ormai non ha più bisogno di conoscere le cause del fenomeno. Si uccide perché si sa che l’assassinio non comporta che una pena ridicola. Ovvio che alla base di ogni delitto c’è un motivo scatenante, ma nel caso dei femminicidi c’è una componente culturale, che va oltre ogni motivo e offre quasi una “giustificazione” di contesto. Lo Stato potrebbe fare la cosa più semplice di questo mondo, come fa una normalissima persona quando per ripararsi dalla pioggia apre l’ombrello. Che vuol dire? Che, stante la situazione che si è venuta a creare coi femminicidi, dovrebbe inasprire le pene, renderle più dure e definitive. Si potrebbe poi vedere nel giro di qualche anno se la “cura” ha funzionato o meno. Certo, nessuno mai può eliminare del tutto un crimine, ma se i femminicidi dovessero calare in maniera significativa vorrebbe dire che ha funzionato. E non sarebbe quel che la società s’aspetta dallo Stato?

sabato 29 marzo 2025

Nonno Prodi, faccia il serio

Ne hanno dette tante e negato tante altre sulla tiratina di capelli fatta da Romano Prodi ad una giornalista di Rete 4. Ho solo poggiato la mano sulla spalla, ha dichiarato Prodi, a caldo. Ha fatto benissimo, ha dato una lezione a uno di quei sicari di Rete 4, ha commentato Massimo Giannini, editorialista de ‘la Repubblica’, equiparando la giornalista ad un sicario che col pugnale in mano aspettava Prodi per pugnalarlo dietro una tenda. Io sto con Prodi, ha detto Enrico Letta, facendosi un selfie. E via di seguito. Inutile passare in rassegna tutte queste maschere del carnevale politico italiano. Poi è venuto fuori un video che mostra quel che si sapeva e che molti negavano. Sono dispiaciuto per me, ha commentato a freddo Prodi, senza chiedere scusa. Viene di chiedersi di primo acchito se non abbiano esagerato tutti, a partire dalla giornalista che ha fatto una domanda a Prodi sul Manifesto di Ventotene a dir poco provocatoria e sfottente. Ci sono domande rispettose e domande irrispettose. Quella della giornalista retequattrista era irrispettosa perché tendeva a far dire a Prodi cose non convenienti. Prodi avrebbe potuto mantenere la calma e rispondere diversamente, ma uno non ha l’età di Prodi per niente e poi non si può pretendere da un Prodi di fare l’Andreotti. Il Manifesto di Ventotene era come il vaso di Pandora, conteneva delle cose che era meglio tenere nascoste. È vero che era mirato alla formazione di un’Europa unita, ma il percorso suggerito era ed è irricevibile; creare un partito rivoluzionario, per instaurare una dittatura e guidare il popolo alla democrazia è cosa da marxisti leninisti. Cosa c’entra la contestualizzazione? Se una cosa è rossa è rossa sempre, non si può dire che cambi colore a seconda dell’ora del giorno. Giorgia Meloni ha scoperchiato il vaso sapendo che cosa vi avrebbe trovato. E lo ha fatto nel luogo sacro di una democrazia, il Parlamento. Se ne sono dette tante, compreso che lo abbia fatto per distrarre l’ambiente politico da questioni più serie. In Italia c’è sempre qualcosa che è più seria di un’altra. In verità sono stati gli oppositori stessi a servirle su un piatto d’argento l’occasione. L’aver sventolato nella manifestazione di due giorni prima il Manifesto per le piazze di Roma è stato un errore. E allora, cos’è sto manifesto? Vediamo un po’. Ed è venuto fuori quel che si poteva solo tenere nascosto. L’irritazione è stata grande e lo ha dimostrato proprio il modo di rispondere di Prodi alla giornalista. Una risposta che è stata di condanna per quel manifesto. “Ho mai affermato io cose del genere?” ha detto Prodi, poi rifacendosi sul contesto e via di seguito. Come se abolire la proprietà privata è questione di contesto e non sia invece una questione di principio! Quanto a Prodi, per sua stessa affermazione avrebbe dovuto ritirarsi. Quando dieci anni fa fu impallinato da un plotone di centouno franchi tiratori quando già sembrava fatta la sua elezione alla Presidenza della Repubblica, disse che alla sua età, allora aveva settantacinque anni, l’unica cosa sensata da fare era ritirarsi. Non lo ha fatto. E bene ha fatto a rimanere sulla breccia, sia commentando la politica internazionale e sia quella nazionale. Io lo leggo sempre volentieri sul Messaggero e benché non lo condivida sempre ritengo che il suo punto di vista sia importante, lucido e coerente. Oggi ha ottantacinque anni e non si vede dove possa andare con la sua fregola di esserci, di contare, di sentirsi sulla cresta dell’onda. Pubblica libri, ipotizza scenari, analizza quelli esistenti, dimostra indirettamente la povertà della sua parte politica. Ma poi sono i suoi stessi, che, di fronte all’incidene con la giornalisa di Rete 4 si appellano all’età, come a dire è un vecchio rimbambito, lasciatelo in pace. A mio avviso non erano troppi i settantacinque anni di età dieci anni fa e non lo sono neppure gli ottantacinque di oggi. Ma quando un’opposizione di cinque componenti diverse non ha un solo leader affidabile e punta ancora su uno che si era ritirato dieci anni fa cosa dimostra se non che la pianta invece di crescere e fiorire è pressochè seccata? Prodi oggi rischia di essere trascinato nella pochezza politica di chi pretende di rappresentare. Quando le differenze tra le varie componenti politiche di una coalizione sono così diverse e diversi sono gli appetiti dei vari leader c’è poco da presentarsi come un solo soggetto. Prodi rischia di diventare una pezza per rammendare i vari strappi politici di un centrosinistra pressoché inesistente. Una pezza che nei tempi migliori serviva a vincere le elezioni ma non a governare; una pezza che oggi non serve neppure a vincere.

sabato 22 marzo 2025

Volenterosi e impotenti

I “volenterosi” del leader inglese Keir Starmer mi ricordano i “volenterosi” che nel 2021 dovevano far nascere il terzo governo Conte. Qui in Italia non fanno una buona fine i volenterosi e forse neppure in Europa per quanto ben 26 Stati si siano stretti intorno a quest’idea, compresa l’Italia. Ma, a parte ogni scaramantica precauzione, il nome stesso tradisce un non saper che fare, un non aver nulla da proporre. Ricordo il valore che si dà a scuola ad un ragazzo che ce la mette tutta ma non riesce: che dire, signora mia? Il ragazzo è volenteroso, ma ha dei limiti importanti. L’Europa ha dei limiti importanti. Nel novero delle grandi potenze l’Europa non c’è. Ci sono America, Russia, Cina; ma l’Europa è “volenterosa”. Vorrebbe, ma non può. Stupisce che si sia fatto promotore proprio un inglese. Ma bisogna capire. L’Inghilterra, lontana dall’Europa per sua scelta, dopo essere stata abbandonata dall’America, rischia di essere isolata. Coi “volenterosi” rientra nel giro europeo, che non è un gran giro ma è pur sempre una compagnia. Quanto all’Italia, la grande manifestazione pacifista di sabato, 15 marzo a Roma, ha dato una dimostrazione plastica di chi invece di viaggiare secondo una rotta, si agita intorno ai problemi senza nessuna direzione; è stata la stessa risposta, diversamente declinata, del voto europeo al riarmo. Ognuno si è diviso come gli è piaciuto, maggioranza e opposizione e perfino ogni singolo partito. Si sono fatti a fettine. A Roma c’erano tutti e di più. Del resto noi italiani siamo maestri di trovate. Finita l’era dei “girotondi” e quella delle “sardine” un’altra ce la dobbiamo inventare ed è ben strano che non vi abbia provveduto lo stesso Michele Serra, ideatore dell’iniziativa romana. Di chiaro c’è che l’Europa spende ottocento miliardi di euro per adeguare gli armamenti alla bisogna. Armarsi non significa necessariamente fare la guerra, può essere deterrenza per chi la guerra la vuol fare a noi. Se l’Ucraina, invece di cedere il suo armamento nucleare alla Russia l’avesse tenuto non avrebbe subito la guerra d’invasione. Si dice che dovremmo fare un esercito europeo e non degli eserciti nazionali, che perciò i soldi per riarmarci dovrebbe cacciarli l’Europa non ogni singolo Stato. Come se l’Europa non fossimo noi. Non si capisce bene la differenza. I soldi sempre europei sono e tutti li devono cacciare a seconda del numero degli abitanti o della ricchezza di ogni singolo Stato. Continuiamo a non voler prendere atto che la realtà nel mondo con l’elezione di Trump è cambiata, in maniera inattesa per giunta. Non è più tempo di “arrivano i nostri”, dunque dobbiamo provvedere da soli. Trump ha promesso la pace e ha fatto come Alessandro col nodo di Gordio, che nessuno riusciva a sbrogliare; lui ha tagliato corto. L’Occidente non è stato in grado di riportare la pace in Ucraina. Ci penso io, ha detto. E quale è stata la soluzione? Quella che né l’Ucraina né l’Occidente volevano e cioè la rinuncia a tutti i territori ucraini che la Russia ha occupato. E questa si può chiamare pace? Questa è resa incondizionata, che solo un altro diverso da Biden poteva fare. Trump sta dando dell’America l’immagine di un paese isterico e inaffidabile, che ricadrà nel prosieguo degli anni. Ma noi europei che figura ci facciamo? Noi ora cerchiamo coi “volenterosi” di ritagliarci un posto alle trattative per la cosiddetta pace, se non altro per salvare la faccia. Col rischio che se qualcuno dei nostri prende la parola in difesa di una posizione ucraina si prenda qualche parolaccia da Trump o l’invito ad alzarsi e andarsene. Aver ribadito il nostro appoggio all’Ucraina ci fa onore, ma nient’altro che questo. È di tutta evidenza che l’America neomonroniana si fa gli affari suoi o crede di farseli. Ma può essere che dopo il caso ucraino il rimescolamento delle cose nel mondo prenda una piega nuova, in cui noi Europa se riusciamo a venire a capo di quanto succede, possiamo recuperare il ruolo che ci spetta per tradizione. Essere preparati non a fare la guerra, ma a scoraggiare gli altri dal farla a noi, è decisivo. Perciò, armiamoci. Oggi il vento sembra andare nella direzione degli avventurieri e dei masnadieri, ma si sa come vanno a finire gli affari tra di loro; e forse è questo che bisogna temere di più. Senza voler mettere in conto che Trump non è eterno e se è stato facile dall’oggi al domani rovesciare tutto, altrettanto può accadere che si possa recuperare quel tutto, che ha garantito nel mondo pace e benessere per ottant’anni.

sabato 15 marzo 2025

Il riarmo europeo e chi va in guerra

Armiamoci e partite non è più una barzelletta di Totò, è il modo di pensare di certi pacifisti italiani che si sono espressi contro il riarmo europeo deciso dall’Europa. Intendiamoci, la gente, che vota e determina governi, non ama sentir parlare di armi e di guerre, oggi più di ieri. Allora per i politici è come lisciarsi l’asso a tressette andandole incontro. La gente non vuole la guerra e noi le diciamo che siamo con lei. È il ragionamento che fanno i populistici del giorno, che sacrificano la responsabilità per la propaganda. Oggi, in Italia, il Movimento 5 Stelle ed altri sciolti di sinistra. Essi dicono sì alla difesa europea ma a combattere devono andare gli altri. Gli altri, chi? Il riarmo, che molto opportunamente si sarebbe potuto chiamare difesa, proprio per non spaventare nessuno, si sarebbe dovuto fare da tempo. La Nato ha sempre sollecitato i governi europei a destinare il 3% del Pil alla difesa, ma vuoi per impellenti altre necessità vuoi per crisi economiche susseguitesi si è sempre rimandato il problema. Oggi ci troviamo in piena crisi mondiale con due guerre, Ucraina e Israele, che non sembrano finire domani mattina. Alla presidenza degli Stati Uniti d’America, dunque del paese guida della Nato, c’è un personaggio che definire strano è un eufemismo. Ha detto chiaro e tondo che la pacchia per noi europei è finita, che gli Stati Uniti non sono più propensi a difendere nessuno se non il loro paese e che tutto quel che fanno è mirato a questo. Sappiamo, inoltre, che le guerre oggi non hanno un campo di battaglia, che tutto lo spazio di un paese in guerra può essere colpito da distanze inimmaginabili. Per la verità lo sappiamo già dall’ultima guerra mondiale. Le guerre non si devono fare. La guerra d’Ucraina non si doveva fare. Ma intanto c’è stato un paese, la Russia, che ha voluto farsi le proprie ragioni invadendo l’Ucraina. Non aveva proprio nessun altro modo per farsi le sue ragioni? È evidente che essa ha voluto, invadendo l’Ucraina, mandare un messaggio all’Occidente. E l’Occidente ha risposto, ha aiutato il paese aggredito a difendersi. Ovvio che l’Ucraina, con la sua aspirazione ad entrare in Europa e nella Nato, è anche un affar nostro. Difficile dire che non c’entriamo, anche se i nuovi padroni del mondo, Russia e America, sembrano dirci, state in un cantuccio accucciati e in silenzio. Purtuttavia le cose non stanno come immaginano Putin e Trump. L’Europa ha voluto decidere di riarmarsi non per aggredire ma per difendersi nell’eventualità di un’aggressione. Il riarmo ha una funzione di deterrenza. È questo che i cosiddetti pacifisti non vogliono capire e per un misero piatto di lenticchie si sporcano la faccia con slogan qualunquistici: no alla guerra, come se quelli che hanno detto sì al riarmo la volessero. Risibile poi il pauperismo di Conte, che non si stanca di dire che i soldi per le armi andrebbero spesi per pagare le bollette della povera gente, quella che non arriva alla fine del mese e via piagnucolando. Ci sono momenti in cui si spende per mangiare e momenti in cui si spende per la pelle, fermo restando che la guerra è lontanissima dalla mente di chi pure ha detto sì al riarmo. Si dice che non tutti i mali vengono per nuocere. Le minacce di Trump per un verso e di Putin per un altro hanno svegliato l’Europa. Riarmandosi, non solo avverte di non essere scoperta, ma reclama un ruolo nella soluzione dei problemi che sono sul tappeto. Trump pensava che da un giorno all’altro avrebbe risolto tutti i problemi. Ha dovuto già accorgersi che le sue minacce e alcuni suoi improvvidi provvedimenti stanno creando seri problemi nel suo paese, mentre fuori la guerra in Ucraina continua con bombardamenti sempre più intensi perché Putin vuole arrivare al tavolo della pace senza niente aver da perdere. Il riarmo europeo sicuramente comporterà dei sacrifici, che è inutile dire graveranno sulle fasce più deboli della società, ma è inutile invocare una situazione che purtroppo non c’è. Quello che si è determinato è pura realtà, che va guardata in faccia, senza eccessivi allarmismi o colpevolizzazioni degli avversari politici. Non è un bel momento, questo lo si vede e lo si sente. Si spera tuttavia che le difficoltà che Trump sta incontrando a risolvere i problemi che diceva che avrebbe risolto dall’oggi al domani lo facciano rinsavire. Lo facciano soprattutto mutare atteggiamento nei confronti dell’Europa, recuperando un’alleanza che sembrava essere nella natura delle cose.

sabato 8 marzo 2025

Santanché e le dimissioni

Da quando si è insediato, il governo Meloni ha perso due sottosegretari e un ministro, per dimissioni: la Montaruli, Sgarbi e Sangiuliano, ognuno per motivi diversi o per opportunità diverse. Per l’opposizione avrebbero dovuto lasciare l’incarico almeno altri quattro, tre ministri (Santanché, Piantedosi e Nordio) e un sottosegretario (Delmastro), anche qui per ragioni diverse. Spero di non essermi sbagliato nel conteggio. Quella delle dimissioni è una questione che in Italia non trova un equilibrio. Prendiamo atto che non siamo calvinisti, i quali identificano la salvezza o la perdizione col successo o con l’insuccesso nella vita. Se fossimo calvinisti, non ci sarebbe problema alcuno. Si è incappati in un incidente di percorso esistenziale? Bene, ci si regoli di conseguenza, senza tante storie. Perché aggiungere incidente ad incidente mentendo, negando, occultando? In Germania, alcuni anni fa, un ministro si dimise perché fu accusato di aver copiato in parte la sua tesi di laurea. In Italia una cosa del genere farebbe ridere i giudici stessi. In Italia, si sa, la morale cattolica, le strade del Signore e via…vogliamoci bene. Un uomo delle istituzioni, messo a processo e dunque prima ancora di essere condannato o assolto, dovrebbe fare un esame di coscienza. Lui solo sa se è colpevole o innocente. Gli altri possono solo presumerlo. Chi dovrebbe dimettersi e non si dimette si appella al fatto che il più delle volte l’accusato finisce per essere assolto perché il fatto non sussiste, magari dopo un po’ di anni di attese e di processi, fino al terzo grado. Questa giustificazione non è del tutto peregrina, almeno non lo è in Italia, dove non c’è la cultura delle dimissioni e non c’è una credibile cultura delle istituzioni. Ma si sa che la verità processuale non sempre corrisponde alla verità storica, anche per la formula “in dubio pro reo” che favorisce gli accusati dei quali non si riesce a provare l’accusa. E siccome non si assolve più per insufficienza di prove ecco che esce che il fatto non sussiste. Ma torniamo a dire che nessuno sa meglio dell’accusato se è colpevole o innocente. Se è colpevole e non si dimette e viene condannato dopo un po’ di anni con sentenza passata in giudicato ha praticamente continuato per tutti quegli anni ad esercitare il compito di ministro o sottosegretario in condizione indebita, salvo che nel frattempo non fosse cambiato governo. Se il ministro è accusato di furto o frode ai danni dello Stato, non si dimette e continua a fare il ministro, una volta condannato dimostra che per quegli anni è stato un ladro o un furfante a rappresentare le istituzioni. Questo può succedere. Allora sarebbe il caso, lo dico da ruminante della politica non da giurista, che non mi compete, quel ministro, che, pur sapendosi colpevole, ha continuato a fare il ministro dovrebbe essere condannato all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e ad una pena pecuniaria proporzionata al danno arrecato all’immagine dello Stato e della Nazione. Troppo comodo non dimettersi e sfruttare le lungaggini della giustizia per rimanere di fatto in un posto di alto prestigio morale e di importante funzione pubblica come se nulla fosse. Dio non voglia che tra qualche anno la Santanchè venga definitivamente condannata. Che condanna sarebbe mai la sua se nel frattempo ha continuato a fare la ministra, a vantare di essere ricca, di fare collezione di borse di lusso, di camminare su tacchi dodici e via di seguito? Intendiamoci, difendersi è un diritto. Non è però un diritto offendere le istituzioni e per esse il popolo composto anche da persone che non possono vantare le cose della Santanchè. Nel caso in specie c’è anche un risvolto politico particolarmente importante. In politica si è relativamente liberi di fare o di non fare qualcosa, non si è mai liberi in assoluto. Quale diritto avrebbe la Santanché di trascinare nelle sue vicende private – si consideri che le accuse che le sono rivolte risalgono a prima che diventasse ministra – una comunità umana costituita da milioni di persone? Sembrerebbe paradossale che ci si augurasse che la ministra ricca sia anche innocente – avete capito bene – e che tutte le accuse rivoltele siano cattiverie di giustizialisti vampiri mai sazi; ma purtroppo non è così. Speriamo che sia innocente non tanto perché vige la presunzione di innocenza quanto per il fatto, non di poco conto, che se dovesse essere condannata, lei e tutti i suoi amici di partito dovrebbero, come dice un’espressione popolare, cacarsi la faccia.

sabato 1 marzo 2025

Trump come Brenno: guai ai vinti!

Quel che è accaduto il 28 febbraio 2025 nello studio ovale della Casa Bianca a Washington merita di essere memorabile. Un Presidente che zittisce l’ospite, presidente di un altro paese, lo caccia via e gli dice di tornare quando si sente preparato, è fuori dalla più incredibile eventualità. È una bolla di acqua ghiacciata caduta sul mondo. Una volta ho assistito ad una scena del genere. Un professore all’Università invitò uno studente in sede di esami ad andarsene e a ritornare quando si fosse sentito preparato. Né più né meno. Ma Trump è andato oltre, si è comportato come Brenno, il re dei Galli, che, dopo aver conquistato Roma chiese un riscatto in oro e ai poveri romani che si erano accorti che la bilancia era truccata disse di tacere e sbattendo la sua spada su uno dei due piatti urlò: guai ai vinti! Il presidente ucraino Zeleski non è Marco Furio Camillo e perciò non ha detto l’Ucraina si conquista col ferro non con l’oro. Però il presidente ucraino è stato fermo nelle sue argomentazioni, ha tenuto duro e ha predetto che prima o poi gli americani si accorgeranno dei guai che li attendono se continueranno a credere nella Russia. Probabile che ad irritare Trump siano state proprio queste parole, considerate velleitarie e irrispettose. Che tali però non erano, se le intenzioni erano quelle di mettere in guardia l’alleato protettore dai pericoli di un nemico comune. Ma ad uno come Trump, che si comporta come un barbaro avvinazzato, non si può mettere in dubbio la sua strapotenza, la sua posizione di padreterno in terra, è sembrata lesa maestà. E poi, quale nemico comune? Trump ha rivendicato la sua terzietà, che lo rende, a suo dire, più avvantaggiato nelle trattative. Ora, dopo il patatrac, cosa accadrà? Noi europei, con qualche piccola eccezione, l’ungherese Orban si è detto filorusso, abbiamo ribadito di stare con Zelenski, continuando nella nostra opera di aiuti in tutti i modi per arrivare ad una pace giusta, che non può essere identificabile con la sconfitta dell’Ucraina, ma con un accordo che tenga conto degli interessi delle parti in causa. Ma non possiamo ignorare o far finta di non capire che la sparata trumpiana non è stata solo contro Zelenski ma contro tutta l’Europa. Siamo in presenza di qualcosa di improvviso che ha spiazzato tutti. Del resto che Trump ce l’abbia pure con l’Europa è notorio, l’accusa è di aver stravivacchiato a spese degli Stati Uniti d’America. L’aumento dei dazi sulle merci provenienti dall’Europa dimostra quanto Trump sia convinto delle sue elucubrazioni. Il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, data come particolarmente vicina a Trump, da considerarla addirittura pontiera tra Usa ed Europa, si trova in imbarazzo, perché se è vero che finora c’è stato una sorta di idillio col presidente americano, è anche vero che è stata fin dall’inizio dell’invasione ucraina la più convinta e fervida sostenitrice del popolo ucraino. Le opposizioni in Italia battono su questo punto; ma in Italia si capisce, appena gli oppositori vedono la possibilità di mettere in difficoltà la premier italiana si lanciano come avvoltoi sulla preda. Veniamo ai fatti. Quali carte in concreto ha in mano l’Europa per risolvere il caso ucraino? Non ne ha, se le avesse avute se le sarebbe giocate prima. Ora addirittura la situazione è peggiorata. Purtroppo la sua scelta fin dall’inizio era di far causa comune e compatta con tutto l’Occidente. Ora che l’Occidente è diviso l’Europa si trova in acque difficili e il caso ucraino le rende ancor più torbide e innavigabili. L’Europa non è in grado di far giungere i due Stati in guerra ad una pace giusta. Gli Stati Uniti certamente possono di più, possono indurre la Russia, in cambio di consistenti guadagni, a mettere fine alla guerra. Ma sarà una pace giusta per l’Ucraina quella ottenuta con l’intesa russo-americana? E l’Europa l’accetterà? L’Europa, per quel che è stato prima e dopo l’invasione, fa tutt’uno con gli interessi dell’Ucraina. Difficile dire che cosa avrà alla fine l’Europa da tutta la vicenda. Poteva saperlo nella situazione pretrumpiana, non oggi più. Ma proprio nell’America pretrumpiana l’Europa ha ragione oggi di sperare. Non è possibile che in America non conti nessuno all’infuori del Presidente. Ci sono forze tradizionalmente filoeuropeistiche che potrebbero agire e costringere Trump a più miti consigli. Trump ha rimproverato a Zelenski di voler giocare con la terza guerra mondiale, ma se qui non cambia l’atteggiamento americano si andrà molto vicino; e Dio non voglia che si arrivi proprio dove non si deve mai arrivare.

domenica 23 febbraio 2025

Signori, un po' di rispetto!

La guerra dei trent’anni, ma già sta andando oltre, tra i politici e i magistrati, iniziata con la discesa in campo di Berlusconi, vede non solo l’abbassarsi di prestigio degli uni e degli altri ma anche di una parte di quel mondo che li circonda, quello dei giornalisti televisivi e dei giornalisti cartacei quando questi vanno in televisione. Non dovrei dirlo, dato che io sono un giornalista, sia pure pubblicista che mi rimanda alla mia professione di docente, alla quale tengo in maniera particolare. I giornalisti della carta stampata superano in rappresentazioni indecenti i loro colleghi televisivi quando pontificano dagli stessi luoghi, diventati in questi ultimi anni veri vomitatoi di insulti e di ingiurie. Chi qualche volta ha sentito Marco Travaglio, direttore del “Fatto Quotidiano”, dalla Gruber sulla 7 o del suo sodale Andrea Scanzi, non può non essersi fatto la doccia dopo la trasmissione, per farsi scivolare tutte le porcherie sparate a zero su tutto e tutti. Così anche sul fronte opposto, dove degli specialisti dell’insulto, veri killer, si esibiscono in aggressioni verbali nei confronti dei politici avversari. I signori della politica si combattono attraverso i loro “bravi”. Lo scadimento dell’ambiente lo si vede anche negli aspetti marginali. A sentire la Gruber rivolgersi agli ospiti presenti chiamandoli per cognome come se gli stessi non avessero un titolo, come se non fossero a volta onorevoli o ministri, professori o giudici, direttori o presidenti, viene di pensare che ormai siamo alla rappresentazione della società marmellata, dove non c’è più nemmeno un pezzettone. Chi sei tu, Gruber, a rivolgerti ad un parlamentare senza chiamarlo Onorevole o Senatore? Chi ti autorizza a dare del tu a Ministri e Sottosegretari? a trattare un presidente alla stregua di un anonimo usciere? Si tratta di bazzecole, si potrebbe dire. No, non è così. La forma è sostanza. E se pure la società non è una caserma, non è neppure la curva di uno stadio. Se una personalità del mondo della politica e della cultura diventa un cognome, senza nessun titolo, vuol dire che non la persona ha perso di valore ma il titolo e quel che il titolo sostanzia. Un professore, un procuratore della repubblica, un direttore, un presidente non possono essere chiamati per cognome come scolaretti. Devono essere riveriti in ciò che rappresentano. Se no si svilisce il titolo, gli studi, la funzione. Si strappa il rapporto di rispetto tra le persone, che hanno sicuramente un livello di parità ma hanno anche un livello di importanza, di rilievo sociale. Il pubblico che segue da casa, che sghignazza agli insulti, alla mancanza di rispetto verso una personalità, non può che giungere alla banalizzazione di tutto e di tutti. Finisce per ritenere normale rivolgersi ad un medico, ad un professore senza il dovuto rispetto, senza riguardo alcuno, a considerarlo un “laqualunque” qualsiasi da insultare e sbeffeggiare. Di qui le continue aggressioni a medici e a professori, una volta categorie tra le più rispettate. Lo stadio del male è così avanzato che nessuno si lamenta, nessuno protesta il proprio titolo e il legittimo rispetto, nessuno pretende il lei nella conversazione, come se fosse una richiesta fuori dal mondo; e invece non dovrebbe essere neppure una richiesta, ma un normale interfacciarsi tra persone che svolgono ruoli diversi. Proprio in televisione si dovrebbe dare l’esempio. Sembra, invece, che tutti si riconoscano in questo crogiuolo di maleducazione, di rissa, dove le vittime sembra che godano ad essere svillaneggiate. Si può pure capire l’imbarazzo di queste persone a richiedere di essere chiamate più correttamente col titolo che hanno, ma ormai al punto in cui siamo arrivati bisogna mettere da parte l’imbarazzo e dire: “egregia signora, egregio signore, si rivolga a me chiamandomi col titolo che mi spetta e mi dia del lei. Chi ci vede e ci ascolta deve sapere con chi lei sta parlando”. L’eccesso di confidenza, quando viene esposto – in privato il discorso è diverso – lede la dignità delle persone, in primis di chi si concede arbitrariamente di non osservare un minimo di galateo. Un po’ di anni fa in televisione, nel corso di una tribuna politica, Bettino Craxi si rivolse al direttore di Paese Sera del tempo con un’espressione popolare, “queste cose raccontale a tuo nonno”; l’altro si fece cupo in volto e chiese immediatamente a Craxi di scusarsi. Oggi sembra che tutto sia cambiato e che la normale educazione sia roba da rigattieri, quando mancano ancora solo le pacche sulle spalle e un rutto in faccia.