sabato 30 novembre 2024
Violenze: e se ricominciassimo daccapo?
Sì, va bene, i femminicidi! Ma qui non manca giorno che non si uccida qualcuno in maniera più o meno feroce. Si dirà: il mondo è andato sempre così. Vuol dire pure qualcosa se la storia inizia con un delitto, quello di Caino che uccide Abele. Vuol dire che la vita ha iniziato con due grandi peccati. Uno, l’originale, per così dire di disobbedienza e di piacere; l’altro, il primo in assoluto, di potere e di dolore. E il mondo, così avviato, non finisce di macinare morti ammazzati. Lasciamo stare le guerre, che vengono fatte proprio per uccidere quanto più è possibile per poi, contando i morti, valutare quel che si è vinto.
C’è nella società odierna una sorta di inflazione della violenza mortale. Non è più tempo di schiaffi, di pugni, di scazzottate. I ragazzi, una volta, prima di affrontarsi stabilivano se lo dovevano fare a pugni o a lotta e chi trasgrediva perdeva la stima degli amici. C’era lealtà perfino nei comportamenti negativi. Oggi si va direttamente a colpire per uccidere, in tutte le età, in tutti gli ambienti. È quanto vediamo in Italia, il nostro beneamato Paese, dove ormai si uccide per niente, dove si è perso qualsiasi valore per la vita. Spesso chi uccide dice di non sapere perché lo ha fatto. Che così, gli è scappato il colpo per gioco. Forse sarebbe il caso di introdurre a scuola dei corsi per spiegare le armi, l’uso e le conseguenze. Non sapere perché si spara e non conoscere le conseguenze del gesto è inquietante. Corriamo tutti dei pericoli quotidiani. Non ci sentiamo più all’interno di una società, che ci protegge; ma in un campo sparso di automi, dove ognuno va per conto suo e non vede neppure l’altro per rivolgergli un sorriso o un saluto, convinto di non dovere niente a nessuno.
Tutti puntiamo dritti alla felicità propria, individuale, che mal s’accorda con quella degli altri, siano gli altri grandi o piccoli, famigliari o forestieri. I giovani non vogliono figli per non doversi sacrificare per essi. I figli, appena possono, scappano per non doversi sacrificare per i genitori. Il sacrificio è bandito come condizione di obbligo morale. Molte costituzioni, figlie del pensiero illuministico, dicono esplicitamente che lo scopo della vita è la felicità. Il sacrificio è l’opposto, l’altruismo, a partire da quello interno alle famiglie, è l’opposto. C’è cultura in questa condizione, non è solo stortura, degenerazione.
I femminicidi sono stati eletti ad unico obbrobrio, ma c’è tanta altra barbarie diffusa. Una mamma, che, per non privarsi del piacere di passare un po’ di giorni in allegria col ganzo, lascia la figlioletta di pochi mesi sola in casa per cinque-sei giorni di fila e la ritrova morta. Un’altra giovanissima donna partorisce e seppellisce in giardino i neonati senza che nessuno se ne accorga. Un’altra ancora uccide la sua piccola di pochi mesi e non sa dare una spiegazione. Per converso ci sono giovani che uccidono la mamma e le strappano il cuore con le mani. Ragazzi e ragazzini che sparano e si accoltellano come una volta risolvevano i bisticci con una semplice spinta e caduta per terra, qualche graffio al massimo e la maglietta strappata. Com’è possibile che il mondo non si renda conto del precipizio in cui è caduto?
Ovvio che la colpa non è del singolo ma della situazione nel suo complesso. Il che non significa deresponsabilizzare l’individuo, non punirlo per quello che ha fatto. La punizione è conditio sine qua non per la rieducazione. Ma si deve poi passare ad affrontare la questione in maniera più comprensiva per prevenire, per indirizzare la società verso una vivibilità con meno problemi e più stimoli.
Le agenzie educative tradizionali hanno perso la loro autorevolezza, conseguenza della perdita di autorità. I genitori degli alunni a scuola organizzano spedizioni punitive nei confronti dei professori, che in ogni caso sono soggetti a sanzioni disciplinari ove si comportino male con gli alunni. I ragazzi, invece, sfregiano le auto dei professori, gli rivolgono ingiurie e minacce sui muri, li aggrediscono in ogni modo con armi e oggetti. I professori possono aver torto come tutti gli esseri umani ma non possono essere violati nella loro dignità e purtroppo anche fisicità. I professori possono e devono essere puniti se sbagliano, ma a punirli lo devono fare le istituzioni e le leggi, non i boss o i figli dei boss o addirittura direttamente gli alunni.
In matematica, quando non si trova il risultato di un problema, inutile cercare dove si è sbagliato, lo si rifà daccapo. Così nella vita. Del resto Pasolini lo disse cinquant’anni fa: «La bacchetta, papà, la bacchetta…un po’ di bacchetta!» (Lettere luterane).
sabato 23 novembre 2024
Ma esiste ancora il Pd?
Una delle più celebri ballate di François Villon chiude le strofe col refrain: ou sont les neiges d’antan? (dove sono le nevi dell’altro anno?).
C’era in Italia una volta un partito che si chiamava Pd (Partito democratico). C’è ancora, ma quanto è lontano dalla sintesi Dc-Pci, quale era agli inizi! Di fronte alla crisi che lo attanagliava di dirigenza e di voti decise qualche anno fa di riordinarsi per ripartire. Elesse un suo nuovo segretario, che fu Stefano Bonaccini, un uomo di ceppo, voglio dire solido, bravo presidente della Regione Emilia Romagna, un politico che sembrava cadere a fagiuolo per un partito un po’ allo sbando dopo molte strenzate.
Ma quando nelle cose entra il verme del male non c’è verso. Il verme fu il marketing. Il Pd volle ri-contarsi con una nuova elezione del segretario, andando a chiedere il voto non solo agli iscritti questa volta ma a tutti gli “aderenti” ad un supposto altro Pd diluito nella società. Questa volta venne eletta una segretaria, la Elly Schlein, il cui nome molti italiani, benché istruiti, neppure sanno pronunciare correttamente: benestante, omosessuale, poliglotta, multipassaporto, ebrea. Erano i tempi di Giorgia Meloni, che, a destra, faceva mirabilia; era necessario che a sinistra si rispondesse di conseguenza. S’ode a destra uno squillo di tromba, dice il Manzoni nel primo coro del Carmagnola, a sinistra s’ode uno squillo.
Ma la politica non è letteratura. L’operazione dei due segretari a rincorrersi non ha funzionato. La politica, ridotta ormai a immagine, si è preso il suo e ha fatto capire che non si deve puntare ad una donna siccome il nemico vincente è guidato da una donna. Bonaccini peraltro aveva dimostrato qualità nient’affatto trascurabili. Un partito deve sempre mettere in campo il meglio che ha. La Schlein neppure era iscritta al partito.
Ma dal momento che la Schlein si è insediata a capo dei lanzichenecchi del centrosinistra – absit iniuria – non si sente più parlare di un’intera classe dirigente del Pd, todos desaparecidos. Dove sono i Rosato, i Franceschini, i Del Rio, gli Orlando, gli Speranza? Ou sont les neiges d’antan? Un’intera classe dirigente si è squagliata. Fa ridere e piangere allo stesso tempo Pierluigi Bersani quando sostiene che ha torto De Luca in Campania a chiedere il terzo mandato. «De Luca – dice – dovrebbe fare quello che faccio io», cioè andare da una trasmissione all’altra a fare propaganda contro la politica del “Bar Italia”, una sorta di pensionamento attivo. Conta poco per lui mantenere la Regione o perderla. L’importante è il punto. Beninteso, il principio del limite ai mandati è un buon principio, ma perché voler buttare una macchina quando ancora va? Se la posta in palio è la presidenza di una Regione, buon senso vorrebbe che si continuasse con quello che al momento sembra “l’usato sicuro”.
Le sinistre di tutto il mondo subiscono sconfitte e sconfitte. Certo, obietterà qualcuno: ha da passà a nuttata, come diceva Eduardo. Prima o poi cambierà il vento e la sinistra – questo almeno nei voti di chi è a sinistra – tornerà a brillare in tutti i consessi, dai cittadini a quelli europei. In Europa, peraltro c’è una curiosa situazione. Nei vari paesi europei avanzano le destre, mentre in Europa resiste la roccaforte delle sinistre, al punto che fanno la voce grossa: questo sì e questo no, come è accaduto nella nomina dei vicepresidenti esecutivi della Commissione.
La sinistra in Italia continua a non capire che la gente preferisce i politici pragmatici, poco ideologizzati, magari un po’ volgari e privi di bon ton, ma capaci di risolvere i problemi. Se, come pare che stia accadendo in ogni parte del mondo, le politiche migratorie e quelle dei diritti civili, per come le propone la sinistra, non incontrano il favore della gente, buonsenso vorrebbe che si cambiasse registro. Mosè non è ancora tornato sul Sinai a far rivedere le leggi a Domineddio. Dove è scritto, in quale tavola, che si devono favorire le derive migratorie e quelle sociali dei diritti civili per una minima percentuale della popolazione contro il parere della maggioranza? La risposta è che la democrazia richiede un simile atteggiamento, poiché la marcia del progresso va in quella direzione. Ma così si pone un grosso problema, che investe la stessa democrazia, la quale non ha una sola dimensione. Impedire che sbarchino in Italia tutti i migranti di questo mondo e contenere i diritti civili entro il possibile non è antidemocratico, è quanto la democrazia può offrire in questo momento. La democrazia è anche gradualità.
sabato 16 novembre 2024
Mattarella, quando ci vuole ci vuole
Succede a chi segue la politica per conoscere e far conoscere, per apprendere e far apprendere – compito della pubblica informazione – che oggi ci si deve perfino arrabbiare di fronte a gesti e parole dei politici e dei rappresentanti delle istituzioni e domani dover riconoscere la giustezza di un intervento, di un provvedimento degli stessi. Apparentemente può sembrare una contraddizione da Girella, il famoso personaggio del Giusti, una confusione di idee. Non è così. Quel che conta, da cui si deve partire, è il fatto. Solo il fatto è realtà, il resto è ciò che si può valutare e non è contraddirsi su un uomo politico se oggi gli dici bravo se agisce bene e domani lo critichi se agisce male. Anzi, proprio nell’apparente contraddizione c’è il succo dell’onestà intellettuale, la credibilità di una persona.
Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica del bis, dopo quello di Giorgio Napolitano, ha compiuto un gesto importante nei giorni scorsi invitando Raffaele Fitto al Quirinale. Le parole e i gesti del Presidente vanno saputi interpretare, qualcosa di più della semplice interpretazione, che è ovvia. Mattarella si è complimentato col Ministro per il bell’esame sostenuto davanti alla commissione che doveva saggiarne la preparazione e l’adeguatezza a ricoprire l’alto e prestigioso incarico di vice-Presidente esecutivo della Commissione Europea. A Fitto non è stata ancora ratificata la nomina e da quel che si dice molto dipende anche dalla decisione di Elly Schlein, segretaria Pd e capo dell’opposizione al governo di Giorgia Meloni, di cui Fitto è parte.
Cosa ha voluto dire Mattarella col suo gesto? È sicuramente un caso di moral suasion, che, cambiato in moneta politica sonante, vuol dire che sarebbe opportuno che la Schlein favorisse la nomina di Fitto in Europa. A questo genere di “presenza” Mattarella ricorre spesso, anzi va sempre più caratterizzandosi come il Presidente che dice sempre la “sua” senza minimamente mancare di rispetto alle altre.
Ma Mattarella ha anche detto parole molto importanti in questi ultimi giorni, sia nel corso delle sue visite all’estero, in Cina soprattutto, sia in Italia. Argomento: la democrazia. All’estero Mattarella ha voluto far conoscere la qualità della nostra democrazia, senza per questo offendere minimamente quei paesi, fra cui la Cina, dove la democrazia è fatta di altro metallo, per così dire.
In Italia, mentre si discute nelle sedi istituzionali e ci si aggredisce nelle piazze come cani arrabbiati, Mattarella ha tenuto una bella lezione sul ruolo del Presidente della Repubblica, che è sempre di arbitro e di “guardiano” della Costituzione. Evidente che lui parlasse di sé riferendosi agli altri. Ha tenuto a dire che lui non sempre condivide le leggi del Parlamento e del Governo, ma siccome esse sono state votate liberamente lui non può rifiutarsi di promulgarle, salvo che non vadano contro la Costituzione. Chi ha voluto capire a che cosa si riferisse ha capito. La legge sulla maternità con l’utero cosiddetto in affitto, che la rende reato universale, è stata da lui promulgata, probabilmente, però, senza condividerla. Bella e plastica la metafora dei fortilizi. Le istituzioni non possono essere postazioni di combattimento e di potere, col tentativo continuo di invadere il territorio nemico. Ciascuno al suo posto dovrebbe comportarsi non come il difensore di un potere ma come l’espressione democratica di una struttura operante per l’intera Nazione. Impossibile non ricorrere col pensiero allo scontro tra magistrati e politici, che hanno esposto il Paese a intromissioni dall’estero, verso cui Mattarella si è rivolto con parole dure ma appropriate. Un caso di moral suasion ai giudici, a cui, non piacendo le politiche del governo in materia di immigrazione clandestina, ricorrono alle loro “armi” per ostacolarne il funzionamento? O ai politici, che pensano di poter applicare le loro leggi senza nessun controllo da parte della magistratura? Probabilmente per entrambi i fronti.
In Italia c’è necessità di tante cose, materiali e morali. Di una in particolare c’è bisogno da sempre ed è la cultura democratica. Essa consiste nel riconoscere le ragioni della parte avversa, ma non nel senso negativo - è pure giusto che tu ti opponga dato che sei all’opposizione – ma in positivo; è lodevole che tu approvi un provvedimento del governo pur essendo all’opposizione. Questa è cultura democratica. Tutto il resto è chiacchiericcio, spesso inutile, più spesso dannoso. Nelle parole di Mattarella occorre cogliere quel che c’è: il frutto e il seme di questa cultura.
sabato 9 novembre 2024
Politicamente scorretti non significa essere maleducati
Ogni tanto a bordo strada incontri qualche signora che non ci metti molto a capire che si tratta di una prestatrice d’opera. Se ti fermi e a lei ti rivolgi chiamandola per l’attività svolta, quella, che pure sta lì apposta, ti può querelare o spaccarti la faccia. E avrebbe ragione nell’uno come nell’altro caso. Il politicamente scorretto non può essere mai maleducazione. La parola “politicamente” lo preserva in un preciso contesto che è quello della politica. Fuori da quel contesto è violenza verbale, variamente punibile.
Di recente Elon Musk, il presidente della Tesla, l’uomo più ricco del mondo, che progetta di andare e venire da Marte, sostenitore di Trump nella campagna presidenziale vincente negli Usa, ha chiamato Olaf Scholz, il cancelliere della Germania, «scemo». In altri tempi la cosa poteva risolversi come minimo con un duello. Oggi, semplicemente non si risolve, la si lascia sospesa. E meno male, perché Musk sarebbe capace di infilzare il povero Scholz al primo assalto, data la differenza d’età e di indole. Scholz, probabilmente, aspetterà l’occasione per servirgli la risposta.
C’è oggi in Italia un deciso attestarsi sul politicamente corretto, che, per dirla con un termine immediato e diretto, potremmo chiamare ipocrisia. In politica l’ipocrisia non è un difetto, è un pregio perché tende a sdrammatizzare e a far passare una cosa brutta per qualcosa che non ha niente a che fare né col bello né col brutto. Purché non si usi l’ironia, perché in questo caso salterebbe subito all’occhio la scorrettezza. La frase con cui Berlusconi si rivolse a Rosy Bindi, «lei, signora, è più bella che intelligente» fu doppiamente scorretta. L’avesse detta ad una bella donna, l’offesa sarebbe stata semplice; ma lo disse ad un’anziana signora che certo non brillava per bellezza, dunque se non brillava per bellezza meno ancora brillava per intelligenza.
Purtroppo il politicamente corretto ha invaso ogni campo in maniera anche esagerata, contravvenendo alle più elementari regole della comunicazione, che impongono di essere rapidi, essenziali e sintetici, usare il minor numero di parole possibile. In nome del politicamente corretto c’è un sovvertimento generale nella comunicazione. I portatori di handicap, ciechi muti sordi disabili in genere, premesso che a loro non ci si rivolge con questi termini, perché si sarebbe maleducati. Essi diventano non vedenti, non parlanti, non udenti, diversamente abili; e va da sé che a loro non ci si rivolge direttamente neppure in quest’altra forma. Il discorso vale nel discorso indiretto, dove non si offende nessuno in specifico e l’una forma vale l’altra. Dire cieco o dire non vedente è la stessa cosa, solo nella seconda forma si impiegano due parole invece di una. Ma non è solo questione di quantità di parole. Ci sono proverbi, “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, per esempio, che vengono privati della loro forza semantica se riproposti in politicamente corretto. Se dici “chi va con un diversamente abile impara ad essere un diversamente abile”. Così “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” perderebbe trasformandolo in “non c’è peggior non udente di chi non vuol non udire”. Oppure “il figlio muto la mamma lo capisce” trasformato per il politicamente corretto “Il figlio non parlante la mamma lo capisce”.
La buona educazione vuole che in presenza di un portatore di difetto non si citi quel difetto. Comunque nel corso dei secoli le cose sono mutate. Pensiamo ai romani, i quali conferivano i tria nomina (tre nomi: prenomen, nomen, cognomen) alle persone importanti. Il cognomen era il soprannome, un privilegio. Cicerone (Marco Tullio) era così chiamato perché aveva un grosso porro in faccia a forma di cece. Il poeta Orazio (Quinto Orazio Flacco) aveva per cognome Flaccus (molliccio) perché era basso, grosso e flaccido. L’imperatore Claudio fu così detto perché era zoppo (da claudico).
In realtà il politicamente corretto ha impoverito la nostra lingua, ha burocratizzato la comunicazione e non risolto minimimente il problema, giacchè è parimenti offensivo rivolgersi direttamente ad un sordo chiamandolo non udente. Ad una persona, quale che sia la sua condizione, ci si rivolge con educazione senza nessuna intitolazione né in positivo né in negativo. La nostra era si sta caratterizzando sempre più per una sorta di diffuso pietismo. Niente a che fare col Pietismus, corrente culturale-religiosa in Germania tra Sei-Settecento, ma tendenza a smussare, addolcire, eliminare tutto ciò che appare duro, avvicinare gli esseri umani verso un punto condiviso che non segni differenze. Tutto questo è positivo purché non si esageri e impoverisca il lessico, in una fase in cui peraltro la nostra lingua viene sempre più mortificata e perfino greco e latino vengono letti all’inglese. È uno sproposito sentire conduttori e conduttrici in televisione pronunciare il grecissimo «bio» bai e il latinissimo «plus» plas. Che onomatopeicamente fa pensare ad un tonfo rovinoso.
sabato 2 novembre 2024
La voce della "pozzanghera"
Io quell’Alessandro Giuli, ministro della cultura, lo “conosco” da molti anni. Le virgolette sono d’obbligo perché di persona non l’ho mai visto, mentre il divario di età e di luogo scoraggia dal cercare improbabili circostanze d’incontro. Agli inizi degli anni Zero del secolo nuovo ci trovammo insieme in una rivista “L’Officina”, che usciva a Roma. Chiaramente di destra, aveva come sottotitolo “Le ragioni nazionalpopolari”. Stare in uno stesso luogo culturale è come convivere in una stessa casa e ti viene spontaneo cercare di conoscere gli altri con-viventi.
Mi misi a leggere i suoi interventi, come del resto quelli degli altri. Fui colpito dal fatto che di qualunque cosa trattasse non si capiva niente. La sua prosa era come una ragnatela, il significato sfuggente come polvere. Sarà perché io ho la mentalità dello storico – mi dissi – e dunque privilegio i fatti il più chiaramente possibile esposti! Dimostrava comunque una propensione per la filosofia, per la religione, per l’esoterismo. Un po’ di anni fa un amico mi regalò due suoi libri, una raccolta di poesie e un romanzo. Idem con patate. Non si capiva niente. Non so più dove siano andati a finire quei due volumetti, per cercare di rileggerli oggi e vedere se a distanza di anni capisco qualcosa che l’impazienza non mi consentì di farlo quando m’approcciai la prima volta.
Il Giuli, però, ha dimostrato negli ultimi anni di possedere buone doti scrittorie. È capibilissimo, pur con quella ricercatezza lessicale che qualche volta lo fa scivolare fuori pista. Non sarebbe diventato un collaboratore del “Foglio” e poi addirittura condirettore se non si fosse in qualche modo piegato all’esposizione facile e diretta, tipica del giornalista. I suoi libri, ne ho letti due, “Il passo delle oche” e “Gramsci è vivo”, li ho trovati divertente il primo, con molto humour, e un po’ irritante il secondo per le genuflessioni continue all’altare di Madonna Costituzione. Essa è da rispettare, ma non da venerare. La venerazione insospettisce e fa pensare ad altre cose, che il buon Andreotti chiamava “male”. Infatti Giuli è stato eccessivo quando, commentando alcune scene di camerati che salutavano romanamente e cantavano inni fascisti così solo per divertirsi e per il gusto di trasgredire, ha usato la parola “pozzanghera”. Quei giovani, che sicuramente avevano votato Fratelli d’Italia e contribuito a farlo diventare Presidente del Maxxi prima e Ministro della Cultura dopo, non meritavano di essere scaraventati in una sorta di bolgia dantesca, dove Giuli condanna i peccatori irriducibili. Non so lui, ma io in quella “pozzanghera” ci sono stato e forse perfino la Meloni nei suoi anni più giovanili c’è stata; non dico che lì dentro si è fatto il bagno, ma insomma i piedi credo se li sia bagnati qualche volta, perché in quella pozzanghera c’è l’humus della cultura nazionalpopolare.
Giuli non è più per simili cose, forse non lo è mai stato. E neppure la Meloni lo è più. Ma mi piace pensare che lei tra una vasca piena di latte di asina e una pozzanghera, tutto in senso figurato s’intende, di cui Giuli è maestro, piuttosto che fare la Poppea, un pensierino per la pozzanghera lo avrebbe fatto. Non ha più l’età e la condizione sociale per sguazzare liberamente tra girini e ranocchi; ma non credo che lei per quell’ambiente abbia lo stesso giudizio di Giuli.
Nel 1977 Marco Tarchi, allora giovane dissidente del Msi, fondò una rivista satirica, “La Voce della Fogna”. Fu un successo che, però, gli costò l’espulsione dal partito. La “pozzanghera” di Giuli è imparagonabile alla “fogna” di Tarchi. Nella prima c’è disprezzo, nella seconda c’è tanta autoironia e nobile difesa di una condizione. Quando “La Voce della Fogna” fu fondata, sui muri delle città italiane i comunisti scrivevano “fascisti carogne tornate nelle fogne” e rischiavi all’Università o per strada di rimediare qualche sprangata in testa. Oggi i fascisti-missini o quel che di loro resta vivono nei salotti della politica e forse alcuni di loro occupano spazi patinati ai quali non sono affatto adeguati. Il partito non ha meglio da offrire o se pure ce l’ha preferisce i “fidati”. Meloni non sbaglia, ma prima o poi sarà costretta a rischiare di affidarsi a qualcuno che al potere non arriva perché non c’è di meglio, ma perché ha più spiccate e comprovate doti. La vicenda del Ministero della Cultura, da Sangiuliano a Giuli, è emblematica. Ma, onestamente, tra il modesto Sangiuliano e l’esoterico Giuli era da preferire il primo. Per Sangiuliano non c’era niente di meglio, per Giuli non c’era niente di peggio.
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